LARRY BIRD – Il “contadinotto” divenuto Leggenda

Si torna in America, si torna in NBA e si torna a sognare con gli irripetibili anni ’80 e le sfide Los Angeles – Boston, nella puntata di oggi di Basket Memories.

E dopo aver parlato a lungo dei Lakers, di West, di Magic e Kareem, è il momento attraversare gli States, cambiare costa, oceano, stile di vita, franchigia e… dinastia cestistica, con i Celtics.

Se L.A. è la città che incarna il sogno americano, il divertimento, il basket vincente, spettacolare e che anche nel presente ha rappresentato il punto di riferimento per gli appassionati, con campioni più “contemporanei” come il compianto Kobe, Shaq e ora LeBron, Boston e Celtics sono il loro contraltare storico e sociale, altrettanto vincente, se non di più.

La città “irlandese”, la più europea forse degli Stati Uniti, quella delle università che sfornano le menti più brillanti di ogni generazione, è infatti, per il basket NBA un luogo sacro che ha scritto la storia, e il parquet ad assi incrociate del Boston Garden è forse il campo più inconfondibile nella memoria di ogni tifoso del nostro sport.

I Celtics detengono record assoluti, sono la franchigia con più campionati vinti, 17, cui aggiungono ben 21 titoli di conference e 22 di division, sono detentori della migliore e forse irripetibile striscia di successi con 8 anelli di fila conquistati fra il ’59 e il ’66, e nonostante siano stati indicati per decenni come il team “bianco” che si contrappone al basket atletico dei colored, il loro giocatore più vincente (11 anelli…) e mitico, Bill Russel, è stato il primo allenatore afroamericano della storia NBA.

Le sfide fra le due dinastie più forti, gli sgargianti giallo-viola di Los Angeles e i solidi trifogli verdi di Boston, hanno dominato la scena per 3 decenni, dagli anni ’60, per poi tornare nel nuovo millennio, con Bryant e Shaq contro i big 3, Allen, Pierce e Garnett, ma di certo sono quelle degli anni ’80 che sono uscite dai confini degli USA e hanno fatto innamorare milioni di tifosi nel mondo.

Con lo show-time californiano guidato da Magic da una parte e…il nostro protagonista odierno dall’altra.

 

Larry Bird.

 

“Una volta mi dicesti che in futuro ci sarebbe stato un nuovo Larry Bird. Larry, non ci sarà mai, mai e poi mai un altro Larry Bird”.

 

Con queste parole Magic Johnson, l’amico e rivale di una carriera intera, ha salutato il suo ritiro dal basket giocato, indossando, sotto la propria divisa da gioco Lakers quella dei rivali biancoverdi.

E non aveva torto.

Larry Bird è l’incarnazione del giocatore completo, in cui talento e determinazione si combinano e trasformano in perfetto campione in ogni aspetto del gioco un giocatore tutto sommato “normale” dal punto di vista fisico.

Ala di 206 centimetri, Larry non ha mai potuto contare, nel ruolo, di un atletismo particolare o di muscoli ed esplosività dominanti, anzi la sua carriera è stata spesso messa a dura prova da infortuni e guai fisici. Ma la sua classe, il suo stile, la sua completezza sono sempre andati oltre, imponendolo come stella di livello assoluto e leader indiscusso sul campo.

 

Larry Joe Bird è un ragazzone biondo che nasce nel 1956, nel contesto rurale dell’Indiana. Si trasferisce presto da West Baden Springs a French Lick, e da quelle parti, uno di quelle dimensioni, normalmente ha la strada segnata: tanto lavoro di fatica, nei campi, in uno Stato, specie all’epoca, a grande vocazione agricola. Oppure…

In Indiana esiste infatti da sempre un’alternativa alle pannocchie, ai trattori e alle fattorie: una pallacanestro di forte impronta tecnica, una tradizione radicata, una scuola dal marchio indelebile, rude e semplice, ma che cresce giocatori dai fondamentali perfetti e completi. Il contesto migliore, per uno come Larry.

Bird infatti non sfugge alla regola, alterna lavori manuali alla passione per la palla a spicchi e già al liceo il suo talento esplode, i suoi gesti sul campo, in un ambiente di cultori del basket puro, impressionano coach, compagni e pubblico. Quando si trova a scegliere il college, opta per l’Indiana University di Bloomington, ma seppure anche lì sia da subito chiaro che quello è un predestinato del gioco, un giocatore totale, non disputa neppure una partita. Larry è infatti spaesato, non gli piace la vita nel campus, enorme e frequentato da migliaia di studenti, si sente sperduto, in mezzo a tutto quel trambusto e quella socialità, abituato com’è a una vita tranquilla in piccoli centri di campagna, in cui il suo carattere introverso e solitario non deve per forza fare i conti con gli altri.

“The hick from French Lick” si autodefinisce, quasi scusandosi, all’uscita del college, “Sono solo un contadinotto di French Lick”.

Cosa vuole tutta quella gente da lui?

 

Torna a casa e sceglie di lavorare, con impieghi umili, a scarso contatto col pubblico, come per esempio quando si mette a guidare il camion della nettezza urbana.

A evitare uno dei più sanguinosi sprechi di talento della storia del basket, intervengono la famiglia Bird e i suoi amici. Insistono, insistono e ancora insistono. Con le buone e anche quelle meno buone, poche smancerie, da quelle parti.

Larry allora ci ripensa. Lascia i guanti da lavoro, il camion, le sicurezze di un’esistenza riservata e piatta, e si ributta nella mischia. D’altronde, non sopporta la folla, ma non è certo il carattere a mancargli. E se deve riprovarci, tanto vale farlo nel posto migliore… .

Si iscrive alla Indiana State University, il college del basket per eccellenza, in cui la pallacanestro è una sorta di religione e i giocatori vengono allevati secondo dettami tecnici ferrei. Qui, trova il suo habitat naturale, le sue doti innate si rafforzano e prestissimo lui emerge come miglior prodotto cestistico completo del suo Stato, e non solo.

Ha una meccanica di tiro perfetta e micidiale, sa andare a rimbalzo come pochi, controlla il palleggio e il passaggio come un piccolo. Insomma, Bird è il prototipo più eccezionale del giocatore dell’Indiana e con lui in squadra i Sycamores scalano le classifiche nazionali e attirano su quell’ala bionda dai fondamentali perfetti e letali l’attenzione di tutta l’America, come quando con la nazionale, composta da studenti di college, vince l’oro alle Universiadi.

Ma soprattutto…

 

E’ il 1979 quando Indiana arriva fino in fondo al torneo NCAA. E quello della finalissima è un giorno che segna un’epoca e il futuro del basket mondiale.

L’avversario è infatti Michigan State, gli Spartans, una squadra innovativa, dal basket meno tradizionale, ma molto più fantasioso ed atletico. A guidarli, l’altro astro nascente del basket universitario… un certo Magic Johnson.

E’ e resta la finale NCAA più vista della storia, lo spettacolo è garantito e nasce lì, su quel campo, una rivalità leggendaria, che ha fatto la fortuna della NBA e dell’intero movimento nel decennio successivo. Vince Michigan, ma a Bird viene assegnato il premio di miglior giocatore dell’anno.

 

Da lì alla NBA il passo è breve ed inevitabile.

Ad assicurarsi Bird come sesta scelta assoluta c’è quella franchigia, forse altrettanto inevitabile… i Celtics.

Boston ha dominato gli anni ’60, ha vinto ancora negli anni ’70, è la squadra più titolata, ma i suoi rivali storici di Los Angeles stanno tornando e i biancoverdi devono rinnovarsi, mantenendo la propria specificità, un basket tecnico, molto concreto e che mantenga la posizione dominante.

Larry è l’uomo della provvidenza, l’ideale erede di quella storia e di quella scuola, come, dall’altra parte del Paese, Magic è l’estro che serve al team che ha già Kareem in roster.

E’ una manna per tutti.

Per le due squadre, ovviamente, ma per l’intero mondo del basket. La NBA, con una rivalità storica di vertice che rinasce, due campioni paradigmatici delle due realtà, lo spettacolare ed esuberante Magic contro l’introverso e spigoloso Larry a rivaleggiare, le tv… diventa faccenda planetaria, che esce dai confini americani, invade di passione cestistica i 5 continenti, diventa il campionato “di tutti” e un fatto di costume, che influisce anche sulla moda. Le divise, i gadgets, le scarpe da basket indossate dai campioni cominciano a vestire i ragazzini di mezzo mondo, sta nascendo il rap, l’hip hop, insomma è una rivoluzione culturale, oltre che sportiva. Né è la prova la Converse, che si assicura sia Magic che Bird come testimonial, e lancia una pubblicità che passa alla storia, con i due avversari, schiena a schiena, che mostrano le loro scarpe, e il claim “Choose your weapon”, letteralmente “scegli la tua arma”, che sintetizza l’effetto esplosivo di quelle sfide, tra i due leader e le loro franchigie.

 

Anche da PRO, Larry non si smentisce. E se sulle sue caratteristiche tecniche c’erano pochi dubbi, diventa chiaro a tutti che l’ala di Boston ha una personalità forte, il carisma e la grinta nel DNA. E, come per tutti i più grandi, una mentalità vincente che si traduce presto in successi.

Il primo titolo NBA con Boston arriva infatti molto in fretta, già nel 1981. Come quelli successivi, la vittoria dimostra la forza di un team che, oltre a Larry, annovera giocatori straordinari e determinati, forse non i primi in spettacolarità, ma di certo inimitabili per sostanza, come Robert Parish, l’imperturbabile centro di colore, o i ruvidissimi Kevin McHale, Bill Walton e Danny Ainge, a perpetrare la tradizione bianca della franchigia. E soprattutto, capaci di lottare su ogni pallone contro avversari straordinari. Se infatti a Magic e i suoi, mediamente, salvo la parentesi Rockets a metà decennio, toccano stagioni di dominio quasi incontrastato a Ovest, per Larry e i Celtics a Est si presentano bruttissime gatte da pelare per un decennio intero: prima i Sixers di Philadelphia di Doctor J, che con l’arrivo di Moses Malone, centro ex Houston battuto proprio da Boston nella finale del 1981, diventano la terza forza della lega e vincono anche un anello, poi la Detroit dei Bad Boys guidati da Thomas, vincitrice di 2 campionati, infine l’emergente compagine dei Bulls, che dominerà gli anni ’90 col più grande di tutti i tempi, MJ.

Ma per 10 anni, sulle assi incrociate del Garden, Boston rimane Boston, inconfondibile, vincente e che arriva sempre in fondo alla competizione.

I successi finali si distribuiscono equamente fra Celtics e Lakers, e Larry continua a impressionare il mondo intero per la completezza del suo gioco, la determinazione e la leadership.

 

Il suo tiro è un’arma totale e perfetta, da ogni posizione, che sia pulito o forzato, tanto da fargli anche vincere per tre anni di fila il contest da 3 punti nel corso dell’All Star Game, le statistiche dei rimbalzi sono spesso a doppia cifra, come quelle degli assist, e i suoi miglioramenti in difesa sono costanti, tanto che viene eletto 3 volte nei migliori team difensivi della NBA.

Ma a questo Larry aggiunge appunto il carisma dei più grandi, impersona alla perfezione il ruolo del grande condottiero senza paura.

Diventano un suo marchio di fabbrica il “trash-talking” ovvero un linguaggio molto diretto e colorito con cui sfida gli avversari e motiva i propri compagni, e la competitività assoluta, anche d fronte al dolore, che sopporta stoicamente.

 

Alcuni esempi?

Siamo alle Finals 1984, guarda caso contro i Lakers. I Celtics perdono gara 3 e la perdono di brutto, la serie sembra indirizzata nettamente dalla parte di Magic e Kareem. In conferenza stampa si presenta Bird, lo sguardo glaciale e l’espressione da sceriffo con le palle molto girate, che definisce “sissies”, signorine, i giocatori di Boston per come hanno affrontato la partita. Una provocazione che porta come risultato alla reazione, compatta e determinata del team, che dalla partita dopo macina canestri e grinta feroce, riportando il titolo a Est, in gara 7. E’ il secondo anello per Larry e il primo dei suoi 2 titoli di MVP delle Finals.

O ancora, riguardo al segno indelebile della forza e del peso di Bird sull’intera NBA, è emblematico ricordare quanto avviene quando la lega impone il salary cap, ovvero il tetto massimo del monte complessivo degli stipendi per singola franchigia, anche per garantire un certo equilibrio alla competizione e alternanza al vertice. La proposta viene accettata, diviene legge, ma con la modifica di un emendamento, fortemente caldeggiato da Boston: è consentito sforare il salary cap per l’ingaggio di un giocatore già presente in roster.

Non a caso, questa sorta di postilla passa alla storia come “Larry Bird Rule”, la regola di Larry Bird.

 

E se parliamo di problemi fisici, di capacità di andare oltre le difficoltà con la determinazione più ferrea… Larry ne è emblema. Come se non bastassero le immagini divenute storiche quando per anni, sia nel pieno della carriera, che al tramonto, alle Olimpiadi ’92, i minuti in panchina Bird li passa sdraiato pancia a terra, sotto massaggio, per lenire i dolori di una schiena letteralmente a pezzi, torniamo al 1986.

E’ il giorno di San Valentino, il 14 febbraio, e i Boston hanno un avversario scomodo, i Portland Trail Blazers. Bird si infortuna alla mano destra, quella magica che realizza canestri e assist in serie. Un altro al posto suo, rinuncia, o al massimo si ritaglia qualche minuto sofferto. Lui no, decide di giocare sul dolore e sfoggiare la sua qualità mostruosa e completa, utilizzando per l’intero match solo la sinistra.

Risultato? Segna 47 punti, cattura 14 rimbalzi, sforna 11 assist, mette il canestro che porta la sfida ai supplementari e quello della vittoria finale.

Anche per esempi come questo, per quel mix fra qualità e determinazione, quell’anno i Celtics vincono il terzo titolo dell’era Bird.

 

Poi, quando la carriera è ormai avviata alla fine, il fisico chiede l’ultimo pedaggio e gli anni presentano il conto, Larry chiude la sua storia da giocatore con l’ultima perla. E’ a Barcellona, col grande Dream Team, a soffrire, segnare e dare spettacolo, per la medaglia d’oro olimpica USA.

 

Tutto finito?

Assolutamente no. Bird si ricicla presto in altri ruoli e sempre con successo.

Torna a casa, e con gli Indiana Pacers si cimenta come allenatore, conseguendo ottimi risultati, a fine anni ’90, portando la franchigia ai vertici della NBA e ottenendo il premio di miglior coach dell’anno. Poi cambia di nuovo, passa alla scrivania, come DG, sempre Pacers, dal 2002 al 2017, salvo un anno di riposo per problemi di salute, guidando con professionalità e riconosciute capacità, anche in questo ruolo vince il premio di miglior GM NBA, la squadra della sua terra in una pallacanestro profondamente cambiata.

 

Insomma, come ha detto Magic, non esisterà un altro Larry Bird, nella storia. Ma esiste eccome lui, e abbiamo la fortuna di essercelo goduto a lungo, in campo e fuori dal campo, in un percorso inimitabile e con un palmares che in sintesi riassumiamo qui:

3 titoli NBA con Boston, 1 medaglia d’oro olimpica, 1 oro alle Universiadi, 1 oro ai campionati panamericani con la nazionale; 3 volte MVP della stagione NBA, 2 volte MVP delle Finals, 1 volta MVP All Star Game per il quale viene eletto praticamente per tutta la carriera, 3 volte vincitore della gara da 3 all’All Star Game, 1 volta rookie dell’anno NBA, 1 volta MVP NCAA, come giocatore, la cui maglia è stata ovviamente ritirata da Boston, e inserito nella Hall of Fame NBA; 1 titolo come miglior allenatore NBA, 1 volta miglior General Manager NBA, con Indiana.

 

E se tutto questo non basta…

Beh, basta riguardarsi Larry in campo, ascoltare le testimonianze di chi l’ha conosciuto, come in questo filmato:

https://www.youtube.com/watch?v=hcXv0JtzNQA

 

E allora risulta facile capire come mai, nei clamorosi anni ’80 di clamorosi campioni NBA, Larry ha cambiato soprannome.

Compagni, avversari, addetti ai lavori lo hanno chiamato semplicemente The Legend.

La Leggenda.

Niente male per uno così.

Il “contadinotto di French Lick” che quasi non voleva giocare… .