MICHAEL AIR JORDAN – L’uomo che sapeva volare

“Per acclamazione, Michael Jordan è il più grande cestista di tutti i tempi”.

Lo definisce così, nella biografia a lui dedicata, il sito ufficiale della NBA.

“Il più grande atleta nord-americano del XX secolo”.

Lo ha premiato così, la ESPN, il canale televisivo americano specializzato nello sport.

 

E allora, si fa proprio dura. Forse basterebbero quelle due semplici e autorevolissime frasi.

Che dire ancora? Come pretendere di descrivere in una rubrica e in un solo articolo il protagonista di Basket Memories di oggi? Cosa aggiungere, che non sia già stato detto? Come si fa a raccontare un giocatore così?

Impossibile.

Ma è proprio lui che ha insegnato a tutti che nulla è davvero impossibile, almeno su un campo da basket, a mostrare al mondo intero che i limiti, tecnici, fisici, umani, sono solo ostacoli lungo il cammino.

Da affrontare, da superare. Da saltare.

Già, facile, per lui.

Lui è Michael AIR Jordan, l’uomo che sapeva volare.

 

A noi, molto più in basso…, non resta che provarci, con tanto rispetto e provando inevitabilmente a fare una sintesi parziale, magari cercando dietro al campione e alla sua luce abbagliante, le motivazioni, anche gli insuccessi, i particolari che lo hanno fatto scattare sopra a tutto e a tutti in una carriera quasi indescrivibile. Tanto indescrivibile che oggi anticipiamo la parte delle statistiche, dei successi, dei record. Un’interminabile lista che comprimiamo per ragioni di spazio e che toglie ogni dubbio su chi sia stato il più grande nella pallacanestro e forse nello sport mondiale:

6 volte Campione NBA, con i Bulls di Chicago, Campione NCAA con l’università di North Carolina, 2 volte Campione Olimpico, sia da universitario che da PRO, e altri titoli con gli USA. Per 10 volte miglior marcatore NBA, un record assoluto, di cui 7 consecutive, come Wilt Chamberlain, detentore della più alta media punti per partita, 30.12, nella storia NBA, della più alta media punti per partita, 33.14, nei play-off, della più alta media punti per partita, 41, in una serie finale NBA, del record per punti segnati, 63, in una partita di play-off, del record per punti segnati in un solo tempo, 35, in una finale. Primo giocatore a realizzare una tripla doppia all’All Star Game, il più volte inserito, 9, nel miglior quintetto difensivo NBA, 5 volte MVP della stagione e 6 volte MVP delle finali NBA, eletto 1 volta difensore dell’anno, 1 volta rookie dell’anno, 14 volte all’All Star Game, 3 volte MVP dell’All Star Game e 2 volte vincitore della gara delle schiacciate, praticamente sempre inserito nelle selezioni All NBA Team, nella All-Rookie all’esordio, premio miglior giocatore NCAA e altri riconoscimenti nella carriera universitaria. Ovviamente, nella Hall of Fame e con maglia ritirata, cui si aggiunge la più alta onorificenza americana, la medaglia presidenziale della liberta, consegnatagli da Barack Obama.

 

Insomma, Michael Jordan è il basket.

Colui che rappresenta il nostro sport nel mondo, per tutti, anche coloro che del nostro sport sanno poco o nulla, un campione, se ce n’è uno, che ha definitivamente “sdoganato” la NBA, portandola per sempre fuori dagli USA, nelle case di miliardi di persone in cinque continenti, e trasformandola in una sorta di lega universale senza confini, di cui tutti, grazie a lui, ci siamo sentiti parte, tifosi o semplici appassionati. Un fatto unico nella storia dello sport, anche di altissimo livello. E, al di là delle solide e prosaiche ragioni commerciali di marketing che stanno all’origine della scelta, la sua immagine, la sua sagoma che vola a schiacciare a canestro, è probabilmente l’icona più conosciuta e riconoscibile in assoluto di uno sportivo.

Come premesso, impossibile quindi celebrarlo di più e ancora, specie in uno spazio letto da chi ha il basket nel sangue, meglio cercare le perle un po’ più nascoste, gli aneddoti, il percorso, non sempre facile, che ha fatto di MJ… MJ, il titolare di quella sacra litania di record elencati.

Michael Jeffrey Jordan… prima di AIR Jordan… .

 

Michael Jeffrey Jordan nasce nel ’63, a Brooklyn, New York, quarto di cinque figli. E proprio nelle dinamiche dei suoi primi anni di vita e della sua famiglia, trasferitasi in Nord Carolina poco dopo la sua nascita, forse è piantata una delle radici più profonde del suo successo. La motivazione, la determinazione, la famosa mentalità vincente, divenuta suo marchio di fabbrica. Da bambino e adolescente infatti, Michael non ha certo l’aria del predestinato, né i privilegi di una strada spianata. Suo padre con lui è particolarmente severo, poche concessioni e smancerie, per un ragazzino gracile, estroverso, ma con un’indole pigra e un rendimento scolastico discutibile: serve impegno, impegno e ancora impegno, per uno così, molto più il bastone che la carota, diciamo. E tanto sport.

Michael ci prova. Con tanta voglia, tenacia e risultati… scarsi.

Soprattutto nel baseball, e nel football, le sue prime discipline. Il basket? Hm, quello lo conosce più tardi, solo a 11 anni, quando il padre costruisce un campetto in giardino, ma non sembra poter essere un’opzione.

Già, perché il piccolo Michael non ha fisico, Non è particolarmente alto ed è troppo magro, un giunco tutto ossa, agile sì, ma con troppi pochi muscoli per competere.

Figurarsi… .

Nel baseball, dopo due anni da lanciatore con buone prestazioni, viene tolto dal monte e retrocesso in un ruolo marginale, perché non ha la stazza per lanciare con la forza dei coetanei, e nel football, dove sembra abbastanza promettente, l’impatto con un avversario gli provoca la lussazione della spalla e sconsiglia a quel ragazzino smilzo di riprovarci.

Cosa rimane allora? La ferrea disciplina paterna, la sua grinta e… il basket.

 

Alla Laney High School gioca i primi due anni nelle giovanili. Si vede che ha stoffa e una gran voglia di vincere, è nettamente il migliore della squadra. Ma di nuovo i limiti fisici lo ostacolano. Clifton “Pop” Herring, l’allenatore della prima squadra, infatti lo taglia dalle selezioni, preferendogli il coetaneo Harvest Leroy Smith. L’episodio passa alla storia, segnando inevitabilmente la carriera del coach, e divenendo una sorta di leggenda, o favola, un po’ come quella del professore di matematica “sciocco e senza intuito” che bocciò Einstein. Per quanto l’esclusione di Jordan dalla squadra del liceo sia una storia molto divertente per le biografie e di certo uno stimolo decisivo per Michael a lavorare di più e migliorarsi, la realtà è più banale: semplicemente, in un team con un’altezza media molto bassa, all’allenatore serviva un giocatore con stazza e centimetri. E di quelli, Michael, ne aveva ancora pochi… solo 178, a metà liceo.

Come spesso accade, e come abbiamo raccontato in altre storie di campioni, arriva il momento in cui gli Dei dello Sport ci mettono lo zampino, offesi dall’incomprensione umana. E allora, in un solo anno, unitamente alla determinazione di Michael negli allenamenti, al suo impegno senza soste per affinare la tecnica e rafforzare il fisico… boom!, gli mettono in corpo quel che gli avevano negato fino ad allora. Jordan si presenta dopo una sola estate, al quarto anno di liceo, con 15 centimetri in più e un’esplosività straripante.

E’ più di 1 e 90, e resta il giocatore più dotato. Impossibile a quel punto tenerlo ancora fuori dalla prima squadra. Sceglie come numero di maglia il 23, il mitico 23 che con lui diverrà simbolo della pallacanestro. Anche in questo caso, la scelta non ha nulla di epico, ma è significativa del carattere e del suo legame familiare.

“E’ la metà di 45, la maglia di mio fratello. La metà, ma più 1” spiega Michael.

I Buccaneers della Laney High School migliorano le proprie statistiche e risalgono le classifiche, ma restano lontani dai team di vertice liceali. Jordan emerge però come talento cristallino e leader assoluto, chiudendo la prima stagione con 24.6 punti e 11.8 rimbalzi di media, e migliorandosi ancora nel secondo anno. Le sue prestazioni non passano di certo inosservate e gli addetti ai lavori individuano in lui uno dei prospetti migliori per la sua età. Viene convocato infatti, insieme a giocatori come il centro Patrick Ewing, all’All Star Game delle High School. Qui stabilisce il primo dei suoi infiniti record: 30 punti con 13 su 19 dal campo, 6 rubate, 4 assist e i liberi decisivi per la vittoria. Prestazione premonitrice… ma che assurdamente non gli consegna il premio come MVP, un altro duro insuccesso da mandare giù.

Poco importa, il ragazzo ci è abituato e la sua fama è ormai diffusa. Indice a casa sua una conferenza stampa, la più seguita per la scelta dell’università di un giocatore di basket, e annuncia di aver optato per la University of North Carolina, del mitico coach Dean Smith, rifiutando le offerte di prestigiosi atenei e squadre di successo come Duke e Syracuse.

 

Alla UNC, Michael deve quasi ricominciare daccapo.

E’ un fenomeno, certo, ma il contesto è duro, competitivo, severo, ben diverso dal liceo, dove la sua stella era unica e troppo luminosa per imporgli regole e limiti. Smith è un santone della pallacanestro universitaria, un sergente di ferro che sa gestire i giovani talentuosi, ma anche disciplinarli, inserirli in un rigido sistema di gioco offensivo e tanta difesa. E in squadra, con Michael, ci sono anche James Worthy e Sam Perkins, non esattamente due qualsiasi… occorre fare gioco di squadra.

Per la matricola Jordan è un’esperienza fondamentale, che rafforza ancor di più la sua voglia di migliorare, ma anche la capacità di mettere le proprie doti al servizio dell’obiettivo comune. Però… lui è Jordan… il migliore fra i migliori… e allora al primo anno, già in quintetto da debuttante e con una stagione “di apprendimento” in corso per il bene del gruppo, quindi da oltre 15 punti di media, molto buona, ma non eccezionale, senza i lampi da solista tanto attesi, gli capita quel che poi sarebbe capitato spesso, nella sua carriera.

E’ il 1982, la squadra conquista la finale NCAA, contro la Georgetown in cui milita il suo rivale del liceo, Pat Ewing. Si gioca al Superdome di New Orleans, con oltre 61.000 spettatori e 17 milioni di telespettatori collegati.

La partita è tiratissima, James Worthy, eletto MVP, pare il protagonista assoluto e il giocatore del momento, il futuro numero 1. La palla decisiva, a 15 secondi dalla fine, però capita in mano alla matricola.

Quello meno famoso, quello che pochi anni prima non poteva fare sport di alto livello per limiti fisici.

Il suo tiro accarezza solo il cotone della retina.

Vittoria. Una vittoria che in Nord Carolina non arrivava da anni.

“Davvero non ho avvertito alcuna pressione. Era un tiro come un altro”, dice Jordan ai microfoni della NBC, nel post partita.

 

Ormai è una star del college basket, ma lui non molla, passa ore in estate in palestra ad allenarsi, a lavorare sui punti deboli, o meglio, su quelli un po’ meno forti del suo gioco. E cresce ancora qualche centimetro… .

Il risultato strabilia tutti.

Nelle stagioni successive le sue prestazioni diventano regolarmente impressionanti, la sua media punti si alza oltre i 21, pur sempre nel rispetto dei dettami tattici del coach, e ormai è opinione diffusa che quel ragazzo è il migliore e avrà la strada spianata tra i professionisti. Tornano però le delusioni: UNC non si ripete come vincitrice NCAA, i critici accusano Smith di tarpare le ali a Jordan e al suo talento in nome di un sistema troppo rigido, Worthy abbandona il college e va ai Lakers, il titolo di MVP premia il futuro centro Rockets Ralph Sampson, non Michael.

Lui non fa una piega, incassa e trasforma l’amarezza in benzina per la propria motivazione. E difende Dean Smith dandogli il merito di avergli insegnato il gioco.

Tempo, impegno, pazienza, sudore e sacrifici sono le sue regole, le ha imparate a memoria, da piccolo, sono il suo mantra, sempre. Un passo alla volta, partita per partita, un unico obiettivo nel mirino, vincere.

Basta saper aspettare… .

Anche quando, convocato in nazionale per i giochi Panamericani, conquista l’oro, è il miglior marcatore con oltre 17 punti di media, ma vengono consacrati come giocatori determinanti Mark Price e Chris Mullin.

Anche quando, un anno in anticipo rispetto alla fine dei corsi universitari, si trova a dover decidere se passare in NBA.

E’ la primavera del 1984. Michael è combattuto, manca ancora qualcosa, per il grande salto. Sono due le svolte che lo spingono a scegliere: l’insistenza di coach Smith, che lo ritiene pronto e lo consiglia a cimentarsi coi professionisti, e l’arrivo del titolo come miglior giocatore dei college.

Un altro premio, un’altra vittoria, un altro titolo. Jordan può allora andare avanti.

 

E’ un draft leggendario e seguitissimo, fatto di talenti. Ad assicurarsi MJ sono i Chicago Bulls, non certo una franchigia di successo. Prima scelta assoluta? Certo che no, lui è la terza. Il primo è Olajuwon, che va a Houston.

Nessun problema, Jordan si rimette sotto con gli allenamenti, in vista del suo esordio NBA e nel frattempo è convocato per le Olimpiadi di Los Angeles. La selezione USA è composta solo da universitari, ma futuri campioni, e il boicottaggio sovietico rende ancor più semplice la conquista dell’oro olimpico.

L’allenatore è un altro santone della panchina, non certo malleabile, Knight, anche lui rigidamente ancorato agli schemi. In quel contesto, Michael, già abituato alla disciplina di Smith, riesce ad emergere tra tanti futuri protagonisti NBA e il suo talento, pur non avendo ancora giocato un minuto tra i PRO trova la definitiva consacrazione.

In quella Olimpiade è di nuovo il miglior marcatore con 17.1 di media, ma ad impressionare sono forse le amichevoli di preparazione. A Los Angeles, contro i fenomenali Lakers dell’epoca, la nazionale vince il test match, Jordan ne fa 27 e chiude la gara superando Magic Johnson e andando a schiacciare.

“Non ho mai visto un talento del genere” commenta Pat Riley, coach giallo-viola, cui fa eco lo stesso Jordan che, quando un giornalista lo definisce, già allora, come il più forte giocatore di basket, afferma:

“Finora non ho ancora incontrato qualcuno che mi abbia impedito di fare quello che voglio fare”.

Un altro titolo, un altro passo, un’altra soddisfazione conquistata.

 

Nello stesso periodo, Michael diventa Air Jordan. E non solo per la sua esplosività. La Nike, all’epoca, è una buona azienda d scarpe dell’Oregon, con un fatturato di 25 milioni annui, un’azienda solida, ma ben lontana dal brand mondiale odierno e dalla posizione dominante di marchi come Adidas, Converse, o la rampante Reebok nel basket, che hanno già testimonial planetari di primissimo livello.

Dopo anni in ascesa, e a fronte di qualche trimestre di recessione, la “casa del baffo” decide di sondare nuovi canali commerciali e in particolare di espandere il proprio mercato nella pallacanestro college e PRO. Vaccaro, un agente lungimirante, ha un’illuminazione e comprende il potenziale dell’immagine dell’ancor dilettante Michael Jordan, già quasi accordatosi con Adidas. Il designer creativo Peter Moore inventa il nuovo brand, AIR Jordan appunto, che trascenderà la sfera commerciale per diventare soprannome ufficioso di Michael, e disegna un logo nuovo, due ali con un pallone da basket.

Jordan accetta e firma un contratto milionario, con una brillante clausola, che impone all’azienda una percentuale per lui su ogni paio di scarpe venduto.

E’ una svolta.

Economica e di costume.

Per la Nike, per Jordan, e per il mondo.

Un impatto mai visto prima e dopo.

 

Esattamente come quello di MJ in NBA.

I Chicago sono una squadra dal record ampiamente perdente, che gioca in un vecchio palazzetto fatiscente, il Chicago Stadium, con la media spettatori più bassa d’America, circa 7.000 a partita.

All’esordio, Jordan fa “prudentemente e solo” 16 punti. Ma alla seconda scrive giù 37 a referto, e da lì non si ferma più: 45, 42, 46, 41 contro i campioni in carica dei Celtics… .

Scoppia immediatamente la mania. E le prime rivalità e invidie. Come quella con Isaiah Thomas, stella dei Bad Boys di Detroit. Al primo All Star Game con MJ, eletto a furor di popolo, nonostante sia un rookie, il play dei Pistons mal sopporta la fama raggiunta da Michael e raramente gli passa la palla.

La risposta di Michael arriva subito dopo, proprio a Detroit, in campionato, quando ne mette 49, prende 15 rimbalzi e conduce a una vittoria storica all’overtime i Bulls.

Alla fine dell’anno Chicago centra dopo una vita i play-off e Jordan è eletto miglior matricola NBA, davanti alla prima scelta dell’estate, Olajuwon.

Un passo alla volta, ancora.

Come sempre, un’altra rivincita, un titolo dopo l’altro… .

 

Già perché ci rifiutiamo di raccontare di nuovo tutta la carriera NBA di MJ.

I 6 titoli, i leggendari Bulls di Pippen, Grant, Rodman e coach Jackson, le sue imprese singole e di squadra, i suoi record e statistiche.

La storia è storia, e la conosciamo tutti.

Quello che impressiona è come sia nata e si sia sviluppata, la sua storia, come sia divenuta la storia di uno sport intero.

Costruita giorno per giorno, senza mollare, senza smettere di migliorare, prendendo bastonate, infortuni e sconfitte come fossero una sfida per raggiungere la vetta, sapendo aspettare il momento della vittoria e della consacrazione.

Un insegnamento, un esempio.

 

E allora preferiamo ricordare alcune tappe di quel percorso, non i traguardi finali e da palmares, quando gli anelli tardavano ad arrivare, i lampi di valore sportivo assoluto non necessariamente legati a un titolo, le impressioni degli avversari.

Jordan oltre e attorno ad AIR Jordan, appunto.

Per esempio, la gara 2 di un serie play-off con Boston, al suo secondo anno PRO, vinta dai Celtics 3-0 nel 1986. L’anello è e resta ancora lontano, ma il re della pallacanestro dimostra di essere pronto per il trono: al Garden, Jordan ne segna 63, stabilendo il record di punti in singola partita nella storia dei play-off. Immarcabile, tanto immarcabile che a fine gara il super campione Larry Bird, autore di 36 punti, 12 rimbalzi e 6 assist, commenta:

“Penso che lui sia semplicemente Dio. Travestito da Michael Jordan”.

 

Oppure quando, al terzo anno NBA, Jordan pur non vincendo l’anello, supera i 3.000 punti stagionali, facendone 61 per 2 volte, oltre 50 per 8 volte e oltre 40 addirittura in 37 partite. Ovviamente è il miglior realizzatore della lega, ma è per la sua difesa, con 3.2 palle recuperate e oltre 100 stoppate, che vince il premio di miglior difensore NBA, a dimostrazione di quanto MJ abbia saputo sempre crescere, completarsi.

Un altro passo, un altro riconoscimento, al solito.

Insieme a quelli di MVP della stagione e dell’All Star Game, nella stessa stagione, cui aggiunge la seconda vittoria nello Slam Dunk Contest, con una schiacciata spettacolare e che sfida ogni legge di gravità, col terzo tempo che si chiude alla linea del tiro libero, ed è divenuta la sua immagine per eccellenza, la sua sagoma inconfondibile, il movimento sportivo più iconico e conosciuto al mondo.

E ha cambiato il logo della sua linea Nike. Air… di nome e di fatto…

quel giorno Michael dimostra a tutti che l’uomo può volare… .

 

E ancora, il primo passaggio di un turno play-off dei Bulls, al quarto tentativo, contro i Cavaliers, quando MJ stabilisce un altro record, 52 e 56 punti nelle prime due gare. E poco importa se dopo, contro i futuri campioni Pistons, Chicago le prende e pure forti. E’ lì che inizia una rivalità storica, dalla quale alla fine i Bulls e Michael usciranno vincitori. E soprattutto, è in quelle serie fatta di agonismo, gioco duro e botte, che viene svelato, caso unico nella storia, che un’intera franchigia titolata, come Detroit, ha dovuto inserire nel proprio gioco le “Jordan Rules”, una lista di tattiche e adeguamenti difensivi “ad personam” per arginare un solo giocatore.

 

E se vogliamo tornare ai numeri, ma non proprio del parquet… .

L’effetto Jordan si misura anche fuori dal campo. Ancora senza nessun campionato vinto, dopo i primi 4 anni di Michael, i Bulls, passano dai 7.000 spettatori di media al sold-out per ogni partita della stagione.

Il loro fatturato di 16 milioni annui diventa di 120 milioni di dollari, portando la franchigia al primo posto in NBA nelle vendite di gadget ufficiali: più dei Lakers di Magic, più dei Celtics di Bird, il 40% del merchandising NBA già a fine anni ’80 è a marchio Bulls.

La Nike, che pochi anni prima era in crisi, da 25 arriva a 120 milioni di dollari annui grazie alla linea AIR Jordan, e grazie alla famosa clausola sul venduto… MJ, che ha un ingaggio ufficiale come giocatore di “soli” 700.000 dollari, passa a guadagni all’epoca impensabili, per uno sportivo.

Tanto che in risposta a un cronista riguardo al suo contratto Bulls, quasi ridicolo rispetto alle altre star NBA, lui sorride e risponde:

“Mettila così. Posso permettermi di giocare senza preoccuparmi tanto dello stipendio”.

 

Poi, con gli anni ’90, arrivano le vittorie, gli anelli, la doppia tripletta di titoli, inframezzata dalla parentesi del baseball, un altro oro olimpico, alla guida dell’inimitabile Dream Team di Barcellona.

Ma anche in quella storia di successi arcinoti, quasi scontati, ci sono gemme particolari. Come quando in gara 6 di finale contro Portland, MJ stabilisce il record di 35 punti all’intervallo, stupendo ancora, se possibile, il pubblico, i media, se stesso e il suo avversario migliore, il grande Clyde Drexler, che inizia la conferenza stampa post partita dicendo:

“All’inizio della serie pensavo che Michael avesse 2000 movimenti diversi. Mi sbagliavo. Ne ha 3000”.

Oppure dopo la pausa sui diamanti, quando al ritorno in NBA annunciato da una sola frase, “Sono tornato”, Michael deve indossare la maglia 45. Un po’ perché è il suo numero preferito, un po’ perché è quello di maglia del fratello, come già ricordato… ma soprattutto perché nel frattempo il 23 è stato ritirato dai Bulls e per riaverlo occorre sbrigare un po’ di burocrazia e diritti.

E ancora, a suggellare i suoi 6 anelli, la giocata simbolo di una carriera intera, quando decide gara 6 contro Utah, rubando palla a un fenomeno come Malone e prendendosi l’ultimo tiro vincente a 5 secondi dalla fine, con i tifosi Jazz a occhi sbarrati, perché sanno già dove va a finire quel pallone, quel tiro, passato alla storia del basket, molto semplicemente, come “The Shot”.

Il tiro appunto, solo questo. Non serve neppure metterci l’autore.

 

Infine, la coda della sua carriera. Mai banale, mai strascicata, mai patetica.

Negli anni agli Wizard, quando si “accontenta” di un ingaggio di un milione di dollari che devolve interamente alle vittime degli attentati dell’11 settembre, ad ogni sua uscita su ogni campo è festeggiato come una sorta di Dio pagano. Ma non solo per riconoscenza, per le sue prestazioni Tiene infatti medie punti eccellenti, 22.9 e 20 a partita, e continua a macinare record e prestazioni eccezionali. Primo giocatore a segnare oltre 40 punti alla bella età, sportiva si intende, di 38 anni, nel 2001, quando ne fa una volta 51 e un’altra 45, si ripete a 40 anni, nel 2003, quando ne mette 43, contro i Nets.

Il suo ultimo All Star Game e la sua ultima apparizione sul campo, a Philadelphia, sono un tributo unico e inimitabile al più grande, in cui compagni e tifosi accompagnano MJ al sipario, con applausi e lacrime dense sulle gote.

Con quei liberi contro i Sixers all’82ma partita del 2002-03, la carriera di MJ si chiude, con una media di 30.12 punti a partita.

Meglio di Chamberlain.

La migliore di sempre.

Un altro passo, l’ultimo, l’ultima conquista.

 

Perché, alla fine, è questo il privilegio che ci ha regalato Michael AIR Jordan.

Non solo il suo talento, le sue vittorie, la sua immensità da cestista e da atleta, ma la costanza, l’impegno, il messaggio, l’essenza stessa della carriera uno sportivo.

Una lunga strada da compiere.

Anzi, la sua rotta.

Perché lui è Michael Jordan.

L’uomo che sapeva volare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=2ULzeWIlamA