DRAZEN PETROVIC – IL MOZART DEI CANESTRI
Genio.
Talvolta, nel basket come in altri sport, è questa la parola con cui si riassume un talento assoluto, capace di interpretare il gioco in un modo personale e inarrivabile. Nel bene e nel male, perché il genio è anche la sua sregolatezza che rompe gli schemi, un artista, ma anche un folle nel suo campo, un individualista spesso dal carattere chiuso nel suo mondo a parte, spigoloso e irriverente.
La straordinaria Scuola Slava della pallacanestro ci ha regalato molti personaggi così, istrionici, romantici e mai banali nel loro approccio al basket. Ma forse, uno in particolare racchiude davvero il senso della definizione, è il paradigma di quel movimento cestistico inarrivabile che da decenni incanta i parquet di tutto il mondo.
Drazen Petrovic.
Senza la purezza quasi poetica dei movimenti di Delibasic, Cosic o Kukoc, senza la meccanica di tiro innata di Kicanovic, Dalipagic o Danilovic, senza lo strapotere fisico-tecnico del predestinato di Divac o Radja o Bodiroga, Drazen ha saputo costruirsi, fare proprie queste doti, affrontare il basket come una sfida, un fatto personale, col risultato di diventare il Genio per eccellenza, il giocatore europeo simbolo, quello che ha ridotto la distanza con l’America ammaliando la NBA.
Il Mozart dei Canestri è il soprannome definitivo e perfetto, che meglio descrive la figura del campione croato, ma per arrivare a tanto, la strada di Drazen è stata tortuosa, impervia e con un finale drammatico.
Petrovic nasce nel 1964 a Sebenico, con una malformazione congenita alle anche che ne condiziona la crescita, la formazione e l’andatura, tanto che anche da adulto, da idolo delle folle, la sua corsa rimane ondeggiante, sghemba, quasi claudicante. Non esattamente quella di un atleta naturale. Innamorato fin da piccolo del basket e primo ammiratore del fratello maggiore, Aleksandar “Aza” Petrovic, altro grande esponente della Scuola Slava, Drazen è un bambino ed un adolescente introverso, ma maniacalmente determinato a superare gli ostacoli e imporsi con una palla a spicchi in mano. Vale per i difetti del suo fisico, vale per quelli tecnici. Nei suoi primi anni infatti, quando passa ogni momento libero costantemente al fianco di Aza, ad ogni allenamento e ad ogni partita, Drazen non è particolarmente apprezzato come giocatore in erba: “Tirapietre” è il nomignolo che gli viene attribuito per la sua scarsa precisione e morbidezza nel tiro a canestro… figurarsi… .
Ma per lui, il basket è una malattia, una dipendenza, un impegno assoluto. Essendo “nel giro” grazie al fratello, nel periodo delle elementari e delle medie ottiene una copia delle chiavi della palestra e passa l’intera infanzia ad allenarsi, spesso da solo e ben oltre le sessioni di squadra, curando ogni aspetto del gioco: tiro, certo, ma anche passaggio, palleggio e controllo di palla, arresto, passo d’incrocio, finte, ecc. Per sette, otto ore, ogni giorno, costruisce il proprio talento, metodicamente, isolandosi dal mondo e divenendo una sorta di automa ossessivo, quasi bipolare, timido, impacciato, scarsamente empatico fuori dal campo, un killer perfetto e sfrontato sul parquet.
I risultati sono eccezionali, date le premesse. A 15 anni entra nel Sibenik, la squadra cittadina, come rincalzo, ma tempo un anno ed è in quintetto come leader, con il ruolo di guardia, che non disdegna ampi minutaggi da play, con la palla, la sua migliore amica, sempre tra le mani. Il Sibenik, piccolo club di provincia, cresce, vince e, con lui protagonista, arriva alla finale di Coppa Korac.
E’ ancora giovanissimo, esile, corre strano, ha una improbabile chioma riccia e folta, sembra uno scherzo della natura, ma…è già una stella. Non è più il “tirapietre”, lo chiamano il “diavolo di Sebenico”, ora, e nella Jugoslavia anni ’80, terra di campioni e profondi conoscitori di basket, uno così non passa certo inosservato. A 20 anni Petrovic passa infatti al Cibona, la squadra in ascesa e detentrice del titolo, in cui ha chiuso una carriera straordinaria Cosic, e realizza il suo sogno di poter giocare col fratello maggiore.
A Zagabria, il “diavolo” si rivela completamente, ipnotizzando tutti da subito.
Il suo è un impatto devastante. Segna una media di oltre 43 punti a partita, stabilendo primati in serie, tra cui, a circa due settimane dal suo ventunesimo compleanno, il 5 ottobre ’85, quello dei punti segnati: alla prima di campionato ne fa 112 all’Olimpia Lubiana.
“E’ antipatico”, “non la passa mai”, “non è un vincente”, sono le frasi con cui alcuni irriducibili esteti e critici del basket classico lo apostrofano. C’è un po’ di verità, in fondo, ma Drazen è un genio, appunto, impossibile da racchiudere nelle logiche del gioco degli altri. E comunque, il suo passaggio al Cibona porta come risultati di squadra un altro titolo in campionato, 2 Coppe Campioni, una delle quali sfidando lo Zalgiris Kaunas di un altro genio emergente, Sabonis, una European Cup e 3 coppe nazionali.
Nel 1988, Petrovic fa il primo grande salto, fuori dai confini di casa. Con un ingaggio stellare per l’epoca e il basket continentale, si assicura quello che ormai tutti conoscono come miglior talento europeo il Real Madrid.
La musica, la musica del Mozart dei Canestri, il soprannome che intanto gli viene affibbiato, non cambia: successi nazionali e internazionali e record individuali mostruosi e ancora oggi imbattuti: di nuovo medie da 40 punti e oltre, assist in continua crescita, e statistiche che migliorano nei momenti decisivi, come i 42 punti della gara 4 di scudetto, o i 62 segnati nella finale di Coppa delle Coppe del 1989, quando il Real vince 117-113 contro la Caserta dei fenomeni Gentile, Esposito e Oscar.
Parallelamente, negli stessi anni, Petrovic è il protagonista principale dei successi della nazionale jugoslava che macina gioco, spettacolo e medaglie in ogni competizione internazionale, come l’argento olimpico ’88, l’oro europeo ’89 e quello mondiale del ’90.
Non basta. La stessa ostinata determinazione che aveva da bambino, per dimostrare prima a se stesso che agli altri di non essere un menomato “tirapietre”, ma un campione assoluto, Drazen la conserva ancora. A fine stagione ’89, dichiara a Sports Illustrated: “In Europa sono il più forte e ho vinto tutto. Non mi interessa continuare a vincere e a collezionare coppe. Cerco altre sfide e voglio dimostrare di poter giocare anche nell’Nba“.
Va a Portland, la franchigia di Drexler, di primo livello in NBA. La stagione del team è ottima, i Trail Blazers arrivano alla finalissima, poi persa contro i Pistons, ma per lui, per Mozart, è una mezza stecca. Non si inserisce bene, viene vissuto come corpo estraneo, troppo egoista, dal resto della squadra, lasciato ai margini. Inaccettabile e doloroso, per uno come lui. E allora via, ma senza perdere la voglia di sfidare il basket dei mostri sacri. Approda ai New Jersey Nets, altra vita, altra sponda dell’oceano e altro contesto. Qui, in una squadra giovane, le sue potenzialità e la sua leadership trovano spazio e minutaggio. E lui vince la propria battaglia già al primo anno: la franchigia migliora, Petrovic dà spettacolo e sostanza, con una media di 20,6 punti a partita, eccezionale per un europeo all’epoca, figlia di percentuali altrettanto impressionanti, come il 51% dal campo. In molti cominciano a indicarlo tra i migliori emergenti assoluti, nel ruolo, ma esistono ancora diffidenza e presunzione nei confronti di uno slavo che osa giocare così, tra i campioni a stelle e strisce. Quando ad esempio affronta Maxwell, dei Rockets, anche lui guardia, che dichiara testualmente, nel pre-partita “Deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia il culo”, Petrovic la prende bene…44 punti in faccia all’avversario e una mezza dozzina di sorrisetti soddisfatti.
Coi Nets, al secondo anno, sale a 23 punti di media, il suo tiro da 3 diviene tra i più temuti al mondo e i dubbi sono fugati: ce l’ha fatta, anche in NBA.
Ma fuori dal suo mondo fatto esclusivamente di parquet e palloni a spicchi, c’è il mondo vero, le sue battaglie, molto più drammatiche e dolorose. Nel 1991 la Jugoslavia esplode, comincia la propria disgregazione con una guerra etnica devastante, che mette contro amici e famiglie. La posizione di Petrovic è privilegiata, quella del campione miliardario, ma gli effetti arrivano anche nel suo regno dorato, oltre che inevitabilmente negli affetti privati. La Nazionale jugoslava non c’è più, una generazione irripetibile di talenti deve dividersi nelle neonate rappresentative di Croazia, Serbia, Slovenia, ecc. Con la maglia croata, Drazen prosegue a illuminare la scena. Insieme a compagni come Kukoc, Radja e Komazec vince l’argento olimpico del ’92, perdendo onorevolmente solo contro il primo leggendario Dream Team USA, quello di Jordan, Magic, Bird, Malone. Imbattibile, certo. Ma sarebbe stato bello poterlo sfidare con Divac e gli altri amici e campioni, ora in maglia serba.
Un altro anno di consacrazione in NBA, con l’elezione nella compagine All American Team (primo europeo della storia, e secondo solo a Olajuwon tra i non americani), e Drazen è pronto al grande salto in franchigie strutturate per il titolo. Di nuovo però, il destino gli è contro e perfido. E per sempre. E’ il 7 giugno del ’93. Drazen ha appena condotto la Croazia in una partita di qualificazione contro la Polonia, con 30 punti di ordinaria amministrazione. Lui decide di non prendere l’aereo con la squadra, ma di rientrare a casa con la fidanzata, in auto. A Denkendorf, in Germania, un camion di traverso sulla strada rende impossibile evitare l’impatto. L’incidente gli è fatale. Muore a soli 28 anni, e come per i più grandi artisti, la sua scomparsa prematura lo proietta nel mito, consacrandolo a leggenda ovunque, anche in quel mondo che lo aveva accolto con diffidenza, negli States.
La NBA osserva il lutto su ogni campo da gioco, i Nets ritirano la sua maglia numero 3, lo sport intero rimane sconvolto. E’ da brividi la reazione disperata di Ivanisevic, campione di tennis, connazionale e amico al suo funerale.
Lascia a tutti gli innamorati della pallacanestro una bacheca eccezionale, soprattutto in relazione alla sua dipartita così drammaticamente anticipata, le difficoltà incontrate e la sua voglia di sfidare i più forti, senza accontentarsi di titoli per lui “facili”:
1 campionato jugoslavo, 3 Coppe di Jugoslavia, 1 Coppa del Re di Spagna, 2 Coppe Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Convocazione nella All NBA Team, nella sua carriera di club, 1 argento e 1 bronzo olimpico, 1 oro e 1 bronzo ai Mondiali, 1 oro e 1 bronzo agli Europei, con la Jugoslavia, 1 argento olimpico con la Croazia, con la nazionale.
In soli 10 intensissimi anni da professionista… .
Ma la sua eredità sta nell’amore per il basket, il suo impegno a migliorarsi, nei suoi gesti, nel suo tiro, nella sua padronanza del pallone, nella forza, nell’intelligenza, nella bellezza del suo gioco, che solo in estrema sintesi ricordiamo con le immagini di questo video:
https://www.youtube.com/watch?v=uNMEbPlo7HI
Un sinfonia.
Una sinfonia degna di Mozart.
Il Mozart dei Canestri.
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