KAREEM ABDUL-JABBAR, UNSTOPPABLE

“Gancio cielo!!!”

Quante volte lo abbiamo sentito, nelle telecronache anni ’80 di Dan Peterson?

Già, il gancio cielo, un movimento ampio, semicircolare e fluido, un arcobaleno dinamico che parte e si chiude ad un’altezza siderale, a una distanza dal difensore incolmabile. E dopo, solo il fruscio della retina.

Il depositario del tiro più immarcabile della storia del basket lo conosciamo tutti, Kareem Abdul-Jabbar.

 

Due metri e diciotto centimetri, icona tra le più leggendarie della NBA e dello sport, Abdul-Jabbar non è confinabile in una rubrica, né nei numeri della sua carriera. Quindi, come di consueto, questa puntata di Basket Memories vuole andare tra le pieghe un po’ meno note del personaggio, senza perdere di vista il campione e il suo impatto nella storia sportiva mondiale.

E allora, prima ci “togliamo il pensiero”, con una sintesi delle sue cifre, poi passiamo oltre.

 

Il centro che ha cambiato il ruolo e il basket, e che insieme a Magic Johnson e Larry Bird ha di fatto esportato il prodotto NBA in tutto il mondo, rendendolo movimento, mito, sport globale, detiene record e statistiche stellari.

Da professionista, gioca ben 20 stagioni (dal 1969 al 1989) in NBA e tutte da protagonista, le prime 6 nei Bucks, a Milwaukee, le altre 14 nei Los Angeles Lakers.

Miglior realizzatore di sempre, con 38.387 punti totali in carriera, mai sotto le 62 partite in stagione a testimonianza anche della straordinarietà del suo fisico, vince per 6 volte l’anello, una con i Bucks e 5 coi Lakers, e per 6 volte è eletto anche MVP della stagione. Per 2 volte è miglior marcatore e MVP delle Finals, ha 19 convocazioni all’All Star Game, praticamente ogni anno giocato, come quasi ad ogni stagione è inserito nell’ All NBA Team e ben 11 volte nel NBA All Defensive Team, sapendo coniugare alla prolificità eccellenti doti difensive (4 volte miglior stoppatore della lega).

Inserito nella Hall of Fame, la sua maglia numero 33 è stata ritirata sia dai Bucks che dai Lakers, e proprio a Los Angeles una sua statua, di fianco a quella dedicata a Magic, è il tributo alla sua carriera.

 

Ovviamente rookie dell’anno al debutto nel ’69-’70, quando è prima scelta assoluta al draft, la sua è la storia di un predestinato.

E’ proprio nel periodo dell’High School e del College infatti che nasce il suo mito e che si “nascondono” le curiosità più singolari di una figura eccezionale e stravolgente per il mondo della pallacanestro.

Newyorkese di nascita, Ferdinand Lewis (detto Lew) Alcindor Jr. al liceo frequenta la Power Memorial Academy di Harlem e la conduce a 3 titoli consecutivi con un record assoluto, 71 vittorie consecutive. Certo, il fisico aiuta (a 14 anni supera già i 2 metri di altezza), ma quel che impressiona del giovane Lew è il suo atletismo, la coordinazione, la mano morbidissima, uniti a una grande intelligenza e impegno, dentro e fuori dal campo.

I pivot dell’epoca, e per molti decenni successivi, salvo rarissime eccezioni sono infatti estremamente specializzati e confinati nel ruolo, non hanno la sua elasticità, velocità, la sua visione di gioco o percentuali del genere fronte a canestro (in quasi tutta la carriera, ad esempio, lui tira i liberi con medie tra il 70 e l’80%).

 

La scelta del college ricade su UCLA, una delle università di riferimento per il mondo della pallacanestro, e qui l’incontro con il leggendario allenatore John Wooden crea un binomio giocatore-coach inscindibile che crea il cestista perfetto.

Chiunque probabilmente avrebbe intuito le potenziali di Alcindor e forse chiunque avrebbe potuto allenarlo con un certo successo. Ma Wooden va oltre. Lo segue spasmodicamente, ne affina le doti atletiche e tecniche, sperimenta, lo migliora.

Come da aneddoto che racconta lo stesso Alcindor in un’intervista, addirittura Wooden gli insegna un particolare modo di allacciarsi le scarpe, per evitargli vesciche e infortuni.

I risultati di tanto lavoro sono da subito evidenti: 3 anni, 3 titoli NCAA, oltre a un’infinità di riconoscimenti individuali, con un altro record imbattibile, sole 2 sconfitte nel triennio.

Uno strapotere assoluto, nasce in quegli anni il giocatore del futuro, dominante sotto le plance per il successivo ventennio da pro. Tanto dominante che, altra curiosità succosa e altro primato assoluto, per la prima e unica volta la NCAA (e in generale lo sport professionistico americano) decide di cambiare una regola del gioco a causa di un solo atleta, per poterne arginare lo superiorità tecnico-fisica, fra l’altro in uno sport come il basket, votato allo spettacolo: abolisce infatti la schiacciata, per poi reintrodurla una volta passato il ciclone Alcindor. Un po’ come se la FIFA avesse messo a regolamento di non poter calciare di sinistro ai tempi di Maradona, per usare un paragone noto a tutti e che renda l’dea.

Risultato?

Scarso. O forse bisogna ringraziare proprio questa discutibile (in)giustizia ad personam per averci regalato un giocatore e un gesto così straordinari.

“Grazie” a tale decisione infatti, Lew, sotto la ferrea disciplina di Wooden, affina ancora meglio la tecnica e in particolare due aspetti del suo gioco:

in difesa, sfruttando il proprio corpo e dinamismo, con avversari che non possono più andare al ferro, ma “solo” tirare, può distanziarsi dal canestro e lavorare sul tempismo della stoppata divenendone uno degli interpreti migliori all-time; in attacco, allena e rende perfetto il fondamentale del tiro in gancio. Nasce lo Sky Hook, il gancio cielo, il suo marchio di fabbrica, immarcabile e divenuto storia.

E’ ancora negli anni all’UCLA che un fatto banalissimo rende per sempre immortale e riconoscibile il gigante. Un piccolo infortunio subito in uno scontro di gioco, gli provoca un lieve danno alla retina dell’occhio sinistro. Per prevenire ulteriori problemi, Alcindor deve proseguire la carriera da cestista indossando larghi occhiali protettivi. Anch’essi diventano presto e per sempre parte integrante dell’iconografia del campione.

Quegli anni sono anche testimoni dell’impegno di Lew fuori dal campo. Interessato a cultura, religione e politica, effettua 2 scelte importanti. Una, meno nota a noi in Italia, è quella di seguire i movimenti di protesta degli afro-americani, che porta ad esempio al gesto del pugno alzato col guanto nero, sul podio olimpico dei 200 metri di Città del Messico, dei due velocisti Tommie Smith e John Carlos, o la diserzione di Clay – Mohamed Alì alla chiamata alle armi. Alcindor decide infatti di boicottare la chiamata della nazionale e alle Olimpiadi del 1968 non partecipa rinunciando a un oro olimpico già vinto, in pratica.

L’altra è quella che cambia la storia e ce lo fa conoscere con un nome diverso, il nome della leggenda. Già avvicinatosi all’Islam nel ’64, negli anni successivi Lew abbraccia la religione musulmana, completando la propria conversione fino a cambiare il proprio nome, nel 1971: da Ferdinand Lewsi Alcindor Jr. al mito, Kareem Abdul-Jabbar, letteralmente Generoso Servo di Dio.

Il resto è noto e basta rileggersi le statistiche o riguardarsi qualche partita di repertorio.

Jabbar è Jabbar, il centro più grande, il più prolifico, una poesia in movimento.

 

Ma resta spazio per un’altra piccola particolarità.

Durante e dopo la sua vita da atleta Kareem si diletta in alcuni ruoli o comparsate cinematografiche e televisive, come attore in film e telefilm. I più lo ricordano come pilota ne “L’aereo più pazzo del mondo”, in molti meno conoscono la sua performance più impostante e singolare. Come molte celebrità che tra fine anni ’60 e inizio ’70 si appassionano, per allenarsi e semplicemente per moda, alle arti marziali, stringono amicizia e ingaggiano Bruce Lee come coach, anche Jabbar si affida per qualche tempo alla star del Kung Fu per migliorare la propria mobilità. Nasce una collaborazione che esce dalla palestra e arriva sul set.

Nel 1972 Kareem infatti comincia a girare con l’amico “Game of Death”, in cui interpreta uno degli avversari quasi mitologici che Bruce Lee deve affrontare in un tetro percorso di crescita e combattimento.

Le riprese si interrompono per la morte del protagonista, che diventa uno dei misteri leggendari di Hollywood, e il film viene montato in post-produzione solo successivamente e ripreso in un docufilm su Bruce Lee. Ma rimane memorabile la scena del loro scontro.

 

Infine, ricordiamo l’ultima partita vinta, da Kareem. La più importante.

Ammalatosi di una rara forma di leucemia, episodio che rende pubblico con una conferenza stampa nel 2009, come ha fatto l’amico e compagno Lakers Magic con l’HIV, per promuovere e raccogliere fondi per la ricerca, Jabbar dopo soli 2 anni, nel 2011 annuncia di aver sconfitto la malattia.

C’era da aspettarselo.

Lo Sky Hood, il Gancio Cielo.

Il suo tiro, paradigma di un uomo e un campione

Kareem Abdul Jabbar.

Semplicemente…

Unstoppable!