Basket Memories – Film d’autore… in 4D! – Delibasic, Dalipagic, Danilovic, Divac

La Scuola Slava della Pallacanestro torna protagonista nella nostra rubrica e lo fa attraverso il racconto di 30 anni di basket di altissimo livello, spettacolare, estroso, unico, quanto i protagonisti della puntata di oggi.

Bastano loro, selezionati tra i tanti campioni che hanno illuminato i parquet europei, per avere la dimostrazione che per decenni quella terra al di là dell’Adriatico ha davvero rappresentato una via alternativa al gioco, un contraltare affascinante ai maestri americani, con un’interpretazione del gioco e una ricchezza di talenti uniche e inimitabili. Certo la NBA e i suoi fenomeni erano e restano il vertice e il punto di riferimento del nostro sport nel mondo, ma per gli appassionati di pallacanestro, specie quelli con qualche anno in più di partite ed emozioni dentro al cuore, la Jugoslavia rappresenta un innamoramento diverso e suggestivo, un mondo vicino e al tempo stesso distante, quasi misterioso. Un basket poetico, romantico.

Un film d’autore che oggi va in scena… in 4 D.

 

E se parliamo di poesia, romanticismo, purezza di stile e tecnica, non possiamo che cominciare da lui, la prima D della pellicola…

Mirza Delibasic.

Chi scrive non ha certo la pretesa di possedere la Verità, di avere in tasca tutte le risposte e il metro di giudizio assoluto, ma Mirza è probabilmente il giocatore più “puro”, naturale e tecnico che abbia calcato i campi da basket europei. Pochi svolazzi, nessuno strapotere fisico, rare giocate spettacolari fini a se stesse, elementi caratteristici del basket attuale, il suo è un talento cristallino e la sua pallacanestro una sinfonia di gesti perfetti, innati, movimenti disinvolti e sinfonici che ancora oggi sarebbero oggetto di clinic per ogni allenatore di scuole e squadre giovanili. E in quella “semplicità”, unitamente alle doti non comuni di realizzatore e uomo squadra, risiede la sua grandezza.

Forse, tra i protagonisti odierni di Basket Memories, Delibasic è quello meno noto o ricordato, al grande pubblico, innanzi tutto per ragioni anagrafiche, storiche e mediatiche. La sua carriera è infatti incredibile e ricca di trofei, specie negli anni ’70, e all’epoca la pallacanestro è certo sport in crescita, seguito e coperto dalla tv ufficiale, ma quasi solo in ambito nazionale. Non esistono ovviamente internet, i social, neppure le tv private, nemmeno i VHS… perfino la NBA, fuori dagli USA, è un mondo di cui si sa, si vede e si parla molto.

Ma c’è un canale, chiamiamolo di nicchia…, raggiungibile maneggiando con la perizia di uno scassinatore di casseforti le manopole del televisore (già perché quasi nessuno, in quegli anni, possiede un telecomando, o una tv coi pulsanti), che è un tesoro inestimabile per gli amanti del basket. E’ TV Koper, per gli italiani Capodistria, emittente a fortissimo palinsesto sportivo, con un telecronista dalla dialettica straordinaria e innovativa, l’inusuale cadenza triestina e soprattutto una competenza profonda del gioco, il mitico Sergio Tavcar, che porta nelle case degli appassionati del gioco un mondo nuovo, le immagini di una frontiera alternativa nella pallacanestro, una scuola diversa e affascinante che proprio in quel decennio si impone a livello europeo e mondiale, con giovani e irriverenti campioni dotatissimi. Il bianco e nero quasi ossidato, i palasport annebbiati dal fumo degli spettatori, i tabelloni talvolta ancora in legno, le righe del campo poco visibili, confuse tra quelle di altri sport come la pallamano e le campane delle aree generalmente non definite da uno stacco di colore, conferiscono alle partite un’atmosfera esotica, quasi “clandestina”, una dimensione al tempo stesso retrò e futuribile. Ma soprattutto è così che Delibasic esce dal campionato jugoslavo e arriva a noi, facendo sembrare una faccenda semplice, facile, l’assoluta completezza dei suoi fondamentali, il suo basket efficace, pulito, ipnotico.

Bosniaco classe ’54, Mirza infatti fin da giovane è una stella splendente nella galassia dell’emergente basket slavo. Protagonista delle prestazioni e dei primi successi delle nazionali under, si ripete nel mondo dei “grandi” in cui debutta ancora minorenne. La lega jugoslava, competitiva fucina di talenti, ha storicamente le sue squadre e le sue piazze di riferimento, a Belgrado, Lubiana, Zara. Tra queste, grazie a Delibasic, si inserisce prepotentemente un team bosniaco rampante, che esplode e resta fissato nella memoria collettiva dei devoti della palla a spicchi: il Bosna Sarajevo. Sono epiche le sfide nazionali e internazionali in cui, nel giro di pochi anni, la nuova forza si impone, e a trascinarla col suo abbacinante paradigma tecnico è proprio Mirza: il Bosna vince per 2 volte il campionato, la coppa nazionale e quando si affaccia all’Europa, ecco che la Coppa Campioni è territorio di conquista di Sarajevo. Parallelamente, insieme ad altri grandissimi giocatori, Delibasic è direttore d’orchestra dei successi della nazionale che rompe l’egemonia americana e russa nel mondo: due ori continentali, uno mondiale e uno olimpico in un quinquennio, ’75-’80, irripetibile. La grandezza di Delibasic a quel punto è consolidata tanto che una superpotenza europea come il Real Madrid si butta sul talento bosniaco e se ne assicura le prestazioni. Nonostante una vita privata non esattamente da atleta, la scelta è azzeccatissima: campionato spagnolo e coppa intercontinentale tornano ai “blancos” e quando gli spagnoli espugnano in coppa il campo di Zagabria della nuova e vincente dinastia del Cibona, con Delibasic autore di 33 punti e Dalipagic (altra D del racconto successivo…) a quota 30, protagonisti di un’azione finale di pura accademia cestistica, il pubblico di casa invece che sentirsi sconfitto e irriso, si alza in piedi per un’ovazione agli avversari.

Pur nella seconda parte della sua carriera sportiva, Mirza resta ancora determinante, ma un’esistenza un po’ dispari e il destino, gli tendono un’imboscata che ne segna la fine. E’ il 1983, in Italia sta emergendo una realtà cestistica nuova, fuori dalle rotte consolidate e vincenti tra Milano, Bologna, Varese. E’ la Juve Caserta, neopromossa in A1, che nel giro di qualche anno diventerà protagonista fino a vincere lo scudetto. A guidarla, c’è Tanjevic, ex coach del Bosna, allenatore innovativo e uomo determinato. Tanto determinato da convincere Mirza non solo a raggiungerlo in Campania, ma anche a disintossicarsi dai vizi del fumo e dell’alcol, per formare una coppia straniera, senza USA, ma con due frombolieri e fuoriclasse assoluti. Insieme a Delibasic infatti in roster c’è il brasiliano Oscar, e se nel basket conta fare canestro… con quei due la Juve ha un fatturato offensivo garantito.

Non sapremo mai come sarebbe andata, ma la sensazione è che forse Caserta avrebbe atteso meno per imporsi al vertice del basket italiano. Purtroppo non va così. La preparazione estiva si svolge serenamente, le prime amichevoli sono entusiasmanti, ma poi, arriva il dramma. Mirza si sente male, viene ricoverato d’urgenza e la diagnosi non lascia scampo: emorragia cerebrale, la sua vita è salva, ma la pallacanestro non ne fa più parte. Da quel momento, Delibasic rientra in patria e vive a Sarajevo, restandoci anche durante i tragici anni della guerra e dell’assedio. I problemi di salute non lo abbandonano e muore a soli 47 anni nel 2001, divenendo leggenda. Nominato sportivo bosniaco del ventesimo secolo, il Bosna gli dedica il proprio impianto, in cui ogni anno un torneo di basket ne onora la memoria. E’ inserito nel 2007 nella Hall of fame FIBA, e il suo palmares racconta solo in parte l’impatto del suo talento nella pallacanestro:

2 campionati jugoslavi, 1 coppa jugoslava, 1 campionato spagnolo, 1 Eurolega, 1 Intercontinentale, con i club, 1 oro e 1 argento alle Olimpiadi, 1 oro e 1 bronzo a Mondiali, 2 ori, 1 argento e 1 bronzo agli Europei, 1 oro e 1 argento ai Giochi del Mediterraneo, con la nazionale.

Tutto questo in poco più di dieci anni da professionista.

Ah, dimenticavamo: Mirza ha veleggiato, tra le sue tante statistiche eccezionali, a medie punti regolarmente oltre i 20 o i 30 a partita, a seconda della stagione, tirando da ogni distanza. E oltre a internet… le tv satellitari… i VHS… non ha mai goduto del tiro da 3… introdotto in Europa solo dopo il suo ritiro… .

 

Il secondo campione, la seconda D della nostra storia odierna, è un “contemporaneo” di Mirza, un altro talento devastante. Probabilmente meno perfetto o completo, se parliamo di estetica del gioco e di controllo totale dei fondamentali, ma dotato di un tiro micidiale, una meccanica disumana, un’arma offensiva che ha rarissimi paragoni nella storia del basket continentale.

Drazen Dalipagic nasce nel 1951 a Mostar e anche nel suo caso la classe e il talento emergono presto, quando è ancora un ragazzino, e successivamente quando debutta a 20 anni tra i pro, con le retine di ogni campo che bruciano sotto i suoi colpi. Per lui si potrebbe ricalcare quanto scritto sopra per Delibasic riguardo gli anni ’70, a Capodistria che “spaccia” la dipendenza da quei nuovi giovanissimi e istrionici miti con la palla arancione in mano, una generazione di fenomeni passata alla storia come svolta del nostro sport e di cui Dalipagic è di certo tra le punte di diamante.

Soprannominato Praja, nella metà campo offensiva è un’ala piccola senza rivali, capace non solo di finalizzare, ma anche di costruirsi il tiro con medie punti senza precedenti per l’epoca. Baffo spiovente e aria da cattivo dei western, è il top scorer per eccellenza in quell’età dell’oro jugoslava, il cecchino avversario che caratterizza il dualismo fra il suo Partizan Belgrado, squadra storica e consolidata, e il team emergente del Bosna di Delibasic, che si spartiscono il bottino di trofei nazionali e internazionali nella seconda metà degli anni ’70. Con la canotta del Partizan, Praja porta infatti nella capitale 2 titoli e una coppa nazionale, oltre che 2 coppe Korac, tra il 1975 e il 1979. Sempre oltre i 30 di media, dopo un primo anno a Venezia, è a inizio anni ’80 che Praja ritrova come compagno di squadra, oltre che nella fantastica nazionale plurimedagliata, Mirza al Real, costituendo una coppia di fenomeni assoluti e basket stellare, come si è già detto.

Rientrato anche per un anno al Partizan, quando stabilisce la propria media record stagionale con 42,9 punti a partita, e lo ribadiamo… senza tiro da 3!, una bella fetta della carriera di Drazen si sviluppa poi in Italia. Non viene mai ingaggiato da formazioni competitive per il titolo, ma va ricordato che all’epoca il basket italiano è di primissimo livello, e i talenti nazionali e internazionali sono diffusi.

Veste la maglia di Udine, di nuovo Venezia, con la quale stabilisce il proprio record di 70 punti in una singola partita contro la Virtus Bologna, e Verona, divenendo personaggio e campione riconosciuto, amato da tifosi e avversari in ogni palasport. E continuando a segnare, segnare, segnare…come una macchina perfetta.

Eletto 3 volte miglior giocatore europeo, chiude la carriera da giocatore in patria, con la Stella Rossa, per poi passare a quella da allenatore. Inserito nella Hall of Fame FIBA, il suo curriculum prova il suo impatto da tiratore perfetto:

2 campionati jugoslavi, 1 coppa jugoslava, 2 coppe Korac con i club, 1 oro, 1 argento, 1 bronzo alle Olimpiadi, 1 oro, 1 argento e 2 bronzi ai Mondiali, 3 ori, 1 argento e 1 bronzo agli Europei, 1 oro ai Giochi del Mediterraneo.

Se c’è una linea continua e comune, quando si parla di giocatori storici jugoslavi, a parte il talento e le vittorie in serie, è di certo la precocità. E talvolta una certa, diffusa, affascinante sfrontatezza. “Facce da schiaffi”, a dirla come si deve, capaci di entusiasmare o di mandare fuori dai gangheri il pubblico, a seconda della canotta indossata. Come Petrovic, cui abbiamo dedicato una puntata. Come questo, la terza D del nostro film…

Predrag Danilovic.

Inutile girarci intorno. Il “tiro da 4” con cui ha deciso una serie finale infinita e incendiaria, un derby scudetto passato alla storia del basket italiano, il canestro e fallo più cliccato di sempre dagli appassionati di pallacanestro delle nostre parti, è il fotogramma che potrebbe racchiudere tutto e ha diviso in due, devoti idolatri del campione serbo e suoi accesissimi rivali, la Bologna dei canestri e non solo.

Ma Danilovic è tanto altro.

Nasce nel 1970, proprio mentre la Jugoslavia di Cosic comincia a impressionare il mondo intero, è bambino quando “Deli” e “Dali”, le due D precedenti, spadroneggiano in patria e a livello internazionale, e ragazzino mentre Petrovic incanta i palasport di mezza Europa, giusto per ricordare il contesto e la continuità con cui la fucina jugoslava ha sfornato gioielli d’oro massiccio.

Precocità, si diceva, e Danilovic, soprannominato Sasha, non sfugge alla regola. E’ un adolescente smilzo e dinoccolato, una guardia, dotata di velocità ed elasticità, con un tiro preciso, reso devastante da ore di allenamenti, quando entra nel giro Partizan. E’ taciturno, dote che mantiene anche lungo la sua carriera, preferisce fare parlare il campo, ha quella faccia un po’ così, fra lo scoglionato e l’irriverente, tagliata spesso a metà da un sorrisetto sornione, e a Belgrado costituisce con il play, Djordjevic, guarda caso… un’altra D…, una coppia di ragazzini terribili e predestinati. Esordisce in prima squadra nella stagione ’88-’89, appena maggiorenne.

Apprendistato, prospetto, fare esperienza? Evidentemente da quelle parti sono vocaboli che non si usano…

Sasha è subito protagonista e la squadra è una imberbe outsider che immediatamente si trasforma in corazzata che trita gli avversari. Coppa Korac subito, al primo anno, insieme alla coppa nazionale, e dopo due stagioni arrivano il titolo jugoslavo, un’altra coppa nazionale e la Coppa dei Campioni.

A quel punto, scatta la corsa ad aggiudicarsi i pulcini più fenomenali di quella nidiata di talenti. Golden State lo sceglie per la Nba, ma lui, come Petrovic quasi 10 anni prima, vuole crescere ancora in Europa.

E’ l’estate 1992, e su Danilovic, avversario imbattibile nella precedente stagione europea, investe e parecchio la Virtus Bologna, nobile della pallacanestro italiana, con un blasone arricchito da qualche coppa Italia, una Coppa Coppe e talenti come Sugar Ray Richardson tra la fine degli anni ’80 e inizio anni ’90, ma a cui lo scudetto manca dal 1984. Pur arrivando da campione d’Europa in carica, sembra un po’ spaesato, al suo sbarco in Italia, quel ragazzo che sceglie la sua canotta, la numero 5. Ma è solo un’impressione, la sua indole. Umiltà, voglia di allenarsi e migliorare, doti che tutti i fenomeni slavi uniscono al talento di madre natura, presto sono evidenti a tutti, a cominciare dai compagni di squadra, lo staff e… il custode del Palasport, il mitico “Andalò”, costretto a straordinari fino a tarda ora per aspettare che Sasha la smetta di provare e riprovare tiri, movimenti, controllo di palla, per chiudere le porte.

Danilovic non tradisce le aspettative, il suo gioco fatto di corse, schiacciate e tiri piazzati si arricchisce, diventa un maestro nel gioco schematico di coach Messina, nell’uscita cronometrica dai blocchi, nella difesa. E i risultatati sono eccezionali. In una lega seconda solo alla NBA per talento, contro avversari come Kukoc, Radja (a proposito di slavi…), Daye e tanti altri, la Virtus torna a vincere il titolo. Danilovic ha 23 anni quando all’esordio in A1 conquista il suo primo scudetto, 24 quando vince il secondo alla sua seconda stagione, 25 quando vince il terzo di fila in tre anni.

E’ pronto. E’ tempo di provare la carriera in NBA. Va a Miami, e alla sua seconda partita, pur ancora dotato di un fisico esile e imparagonabile rispetto ai colossi muscolari americani, dopo un blocco duro e non esattamente regolare, reagisce avviando una scazzottata degna di un saloon. Brutto gesto, che però Dan Peterson, in telecronaca stigmatizza a suo modo… “Non si fa” dice più o meno “ma questo rookie magrolino ha la faccia giusta per sfondare…”.

In America Sasha mette su i muscoli e si ritaglia un ruolo da specialista, quasi chirurgico, sia negli Heat che a Dallas, sua seconda franchigia. Le sue medie, uscendo dalla panchina, sono di 12,6 e 16.6 punti a partita, con prestazioni record come i 30 segnati contro Phoenix o il 7 su 7 da 3 infilato contro i Knicks al Madison Square Garden. Tolta la “voglia” di cimentarsi contro i maestri d’oltreoceano, Danilovic rientra in Europa, a Bologna, la sua seconda casa. E’ un giocatore diverso, meno “elastico”, ma più solido nel fisico e ancor più determinato e capace di dare il meglio sotto pressione, e l’estate cestistica italiana del ’97 è infuocata da un mercato ricco e folle. Le squadre investono miliardi, la lega si arricchisce di talenti, in un contesto che porterà poi la competitività della pallacanestro tricolore al titolo europeo del ’99, ma è proprio a Bologna, ridefinita Basket City, che si scatena la vera sfida a suon di colpi a nove zeri. I più rumorosi sono di certo l’arrivo della stella NBA Wilkins in Fortitudo e, appunto, il ritorno di Sasha in Virtus.

La storia è nota, coppa Italia alla F, la prima storica Eurolega nella bacheca V, e quella finalissima, 5 partite sconsigliate ai cardiopatici, in una bolgia di 9.000 persone al palazzone di Casalecchio, con il titolo che cambia padrone mille volte… fino a quel tiro da 4, di un Danilovic fino a quel momento in ombra e mezzo zoppo, che poi nei supplementari porta il quarto scudetto in 4 anni ai bianconeri, a cui aggiunge poi una coppa Italia la stagione successiva, preludio del suo ritiro.

Già perché il fisico di Sasha fa le bizze, le sue caviglie portano i segni di scontri, mutamenti fisici e allenamenti continui. E lui non è tipo che si accontenta, che può accettare di non essere al massimo e vincere. E allora, nel 2000, a soli 30 anni e alla vigilia delle Olimpiadi di Sydney si ritira, senza troppo clamore. Quasi in silenzio, come sempre, ma con una serietà e un carisma che gli hanno poi consentito un seconda vita da dirigente ai massimi livelli nel suo sport, in patria.

Pur penalizzato da questo finale anticipato e dagli eventi storici che hanno disgregato la Jugoslavia e impedito alla Serbia di ripartire subito tra le grandi nazionali mondiali, il palmares di Sasha è segno indelebile di un percorso vincente:

1 campionato jugoslavo, 2 coppa jugoslave, 4 scudetti italiani, 1 coppa Italia, 1 coppa Korac, 2 Eurolega con i club, 2 ori europei prima della divisione della Jugoslavia, altri 2 ori e 1 bronzo europeo dopo, 1 argento olimpico, con la nazionale, 1 titolo individuale come Mister Europa, 1 MVP Eurolega, 1 MVP Italiano.

 

L’ultimo dei grandi campioni di oggi, la D finale del film che vi dedichiamo, sta tutto nella colorita definizione illuminante che di lui ha dato proprio Sergio Tavcar, la “voce” degli appassionati di basket jugoslavo:

“Questo non potrebbe che essere un giocatore serbo, talento, leadership e autostima a mille. E se avesse saltato più di quei 20 centimetri che aveva di elevazione, probabilmente sarebbe il più grande pivot della storia jugoslava.”

Vlade Divac nasce a Priiepolje, paesino del sud della Jugoslavia del 1968, in un ambiente fortemente legato alle tradizioni storiche, in cui la sua famiglia rappresenta una sorta di clan, un radicato riferimento di potere nella comunità. Carattere forte e, appunto, tipicamente serbo, fisico fuori dalla norma, il contesto è significativo e determina la spavalderia con cui Vlade affronta la vita, fin da giovane. Viene scoperto in un playground di provincia, quando da adolescente, già enorme, ma anche già dotato di fondamentali completi, palleggio e tiro compresi, fa il play, pur svettando di mezzo metro su compagni e avversari, e impartendo ordini tattici perentori agli altri.

Chiarito al coach e suo lungimirante scout che quelli che ansimano attorno a lui, piccoli e nettamente meno dotati, sono semplicemente suoi coetanei e compagni di classe, è subito reclutato per giocare “sul serio”, nello Sloga Kraljevo. Qui continua a crescere, fisicamente e tecnicamente, e ancora minorenne passa al Partizan Belgrado, in cui con i suoi 216 centimetri e 116 chili, si impone come pivot moderno, dotato di tiro morbido, visione di gioco, capacità di passaggio da “piccolo”. In bianconero conquista un campionato, poi, con l’arrivo di altri giovanissimi fenomeni, come Danilovic e Djordjevic, una Korac e una coppa jugoslava. La sua ascesa fulminea e le sue caratteristiche non comuni, pari solo a Sabonis in Europa, insieme alle prestazioni e gli allori in nazionale, colgono subito l’attenzione del mondo del basket, anche oltreoceano.

Nel 1989 arriva infatti la chiamata NBA ed è una chiamata… stellare. Sono i Lakers, la squadra dello show-time, i pluricampioni in carica di Magic, di Worthy, che hanno individuato in Divac, a 21 anni, colui che deve sostituire niente meno che Kareem Abdul – Jabbar, il più grande centro della storia.

Compito ingrato, in un mondo nuovo e lontanissimo dalle certezze europee, pieno anche di non poco scetticismo su quel gigante slavo debuttante. Ma Vlade conosce bene il gioco, entra subito nelle grazie di Magic e quanto ad autostima, come dicevamo, ne ha da vendere, convinto com’è di non essere inferiore a nessuno. Supera i problemi di lingua e integrazione, adatta il proprio gioco alla lega, e diventa un ottimo pivot, anche in NBA, anche se l’anello non torna a Los Angeles e qualche critico abbia ancora inevitabilmente negli occhi il suo predecessore ingombrante e inimitabile. Nella seconda stagione, quella in cui chiudono Magic e Worthy, il contributo di Divac cresce ancora, è stabilmente tra i migliori nel ruolo e la franchigia torna alle Finals, anche grazie al suo eclettico serbo super. Il titolo, di nuovo, sfugge, va per la prima volta a Chicago. Ma è appena iniziata la dinastia Jordan, e allora non c’è molto da fare… essere secondi dietro all’alieno, è come essere primi fra i terrestri…

Seguono stagioni di declino, per i Lakers, abbandonati anche da coach Riley, in cui però, nonostante un brutto infortunio Vlade si impone, nel gioco e nella leadership, e diventa giocatore-franchigia, alzando minutaggi e medie punti, fino a quasi 15 a partita. Il ritorno del campione e amico Magic sembra preludere a una nuova stagione di successi e alla definitiva consacrazione del centro. Non è così, i Lakers restano lontani anche dalle finali di conference, e il GM Jerry West provvede a rivoluzionare il roster: prende il nuovo fenomeno Shaq, nel ruolo di Divac, e scambia i diritti su Vlade per un acerbissimo talento con un passato in Italia, Kobe Bryant. A quel punto Divac, ancora fortemente convinto di essere il migliore, deve accettare, pur offendendosi parecchio, per essere stato messo sul mercato per quelli che secondo lui sono solo un ragazzone tutto muscoli e poca tecnica e un… liceale.

Passa due stagioni a Charlotte, con ottimi record di squadra e individuali, ma anche cocenti delusioni ai play-off, quando incrocia nuovamente i Bulls invincibili di MJ, e nel 1998 diventa free agent, così sceglie di tornare in California, stavolta a Sacramento.

Qui, avviene la sua competa consacrazione. I Kings salgono di livello e scalano le classifiche, Vlade, insieme al connazionale Stojakovic, altro fenomeno della stessa scuola, diventa un fattore determinate, e leader indiscusso del gruppo. Anche se gli assegnano il nomignolo “Marlboro Man” per la sua passione per il fumo, che ostenta anche dentro al Palasport, in barba a ogni divieto, come un reuccio autoproclamato, le sue prestazioni sono davvero spettacolari e di sostanza, è uno dei pochi a dare battaglia con onore contro il pari ruolo, ormai divenuto pivot dominante in NBA, Shaquille O’Neal. Come nell’epica sfida in finale di Conference 2002, proprio contro i Lakers, quando Sacramento resta a un tiro finito sul ferro dalla finalissima, uscendo sconfitto al supplementare di gara 7.

Nelle stagioni successive la squadra non si ripete, pur centrando i playoff, Vlade comincia a sentire il peso dell’età e delle mille battaglie sotto le pance, fin quando, per chiudere la carriera, beffardamente è richiamato ai Lakers per sostituire il “nemico” Shaq, passato a Miami. Un’annata deludente, con un problema di ernia a limitarne le presenze e le prestazioni, che convince Vlade al ritiro, nel 2005, dopo una carriera da grandissimo, in patria, in Europa e in NBA.

Il suo palmares, di squadra e individuale, fanno infatti di Divac, un centro leggendario, tra i primi come tecnica, leadership e rendimento:

1 campionato jugoslavo, 1 coppa jugoslava, 1 coppa Korac, con i club, 1 argento alle Olimpiadi, 1 oro e 1 bronzo ai Mondiali, 2 ori e 1 bronzo agli Europei con la Jugoslavia prima della sua disgregazione, 1 argento alle Olimpiadi, 1 oro ai Mondiali, 1 oro e 1 bronzo agli Europei dopo, con le nazionali, primo cestista non statunitense a raggiungere le 1000 partite in NBA, inserito nella Hall of Fame FIBA e in quella NBA, unico con Shaq, Jabbar, Olajuwon, Duncan, Garnett e Gasol (il gotha della storia dei pivot mondiali) a raggiungere la cifra di almeno 13.000 punti, 9.000 rimbalzi, 3.000 assist e 1.500 stoppate in NBA.

 

The End?

Sicuri?

Noi crediamo che il film della pallacanestro jugoslava, con e senza i… 4D, sia ancora tutto da vivere… .

SACRAMENTO, CA – DECEMBER 10: Sasha Danilovic #5 of the Miami Heat shoots during a game against the Sacramento Kings on December 10, 1995 at Arco Arena in Sacramento, California. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and/or using this Photograph, user is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. Mandatory Copyright Notice: Copyright 1991 NBAE (Photo by Rocky Widner/NBAE via Getty Images)