ARVYDAS SABONIS – Il Principe del Baltico

Fino ad oggi, a Basket Memories, abbiamo parlato della storia della pallacanestro attraverso le gesta di personaggi leggendari e riconducibili a due grandi scuole che hanno prodotto fenomeni assoluti e fatto appassionare milioni di tifosi. Da una parte ovviamente la NBA, il riferimento globale, la lega migliore per eccellenza e che rappresenta l’essenza stessa del gioco e le sue origini, la “casa” dei maestri, e dall’altra quell’affascinante anomalia cestistica che ha costituito una sorta di via alternativa, un tesoro ricco di gioielli della palla a spicchi, la Jugoslavia.

Ma il basket è uno sport a diffusione globale ed è esistita una frontiera lontana, più che altro per la sua natura storica e politica, che per decenni è stata il vero contraltare agonistico degli States nel mondo dei canestri, l’Unione Sovietica.

Con 2 ori, 4 argenti e 3 bronzi alle Olimpiadi, 3 ori, 3 argenti e 2 bronzi ai Mondiali e un dominio fatto di 14 ori, 3 argenti e 4 bronzi agli Europei, quella che tutti identificavano come Armata Rossa è la nazionale più vincente della storia, dopo gli USA, mondo cestistico di riferimento assoluto fino alla sua “dissoluzione”, parallela agli eventi storici, in tante federazioni, e fucina di campioni indimenticabili.

Certo, per decenni, quella pallacanestro, quei successi, quei giocatori sono rimasti dietro la cortina di ferro, distantissimi e quasi avvolti dal mistero, a differenza del basket americano ed europeo; apparivano nelle occasioni ufficiali, impressionando e vincendo con la nazionale e con i club, per poi riscomparire agli occhi di noi occidentali, in un mondo diviso in blocchi che tagliava in due la percezione di tutto, anche dello sport. Ma esistevano eccome, e forse anche proprio per quelle ragioni sono divenuti leggende.

Fino al 1991, sono tantissimi i campioni che si sono imposti a livello mondiale uscendo da quel contesto, dal mitico Belov, passando per il gigantesco orco Tkačenko, al più recente Volkov, o ai fenomeni nati da una federazione e una scuola che ha fatto da motore e prezioso serbatoio per l’URSS cestistica, per poi, dagli anni ’90, insieme alla Russia, raccoglierne il testimone di potenza mondiale, ovvero la Lituania.

La terra di Chomicius e del grande Marčiulionis, in grado di ritagliarsi un ruolo importante anche in NBA, ma soprattutto la patria del nostro protagonista di oggi.

 

Arvydas Sabonis.

 

Lungi da chi scrive cimentarsi in un trattato sociale o un saggio storico, ma come per altri campioni di Memories, e stavolta a maggior ragione, è necessario tratteggiare il quadro ambientale in cui è cresciuto l’uomo e il giocatore.

Sabonis nasce nel 1964, a Kaunas, in una Lituania che all’epoca è “solo” una delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Una terra con una propria identità, una propria storia, anche sportiva, una consapevolezza fiera, che però deve rendere conto a Mosca e sopire ogni pretesa indipendentista. Specie in quegli anni, in cui la tensione tra le superpotenze è al massimo, dalla corsa agli armamenti nucleari alla conquista dello spazio, con la crisi dei missili di Cuba e la terza guerra mondiale sfiorata solo qualche mese prima, il Vietnam e i colpi di stato in Sudamerica a marchio USA, le rivolte zittite nel sangue dall’Urss nell’Europa dell’Est a segnare la storia dell’intero pianeta per oltre dieci anni.

Lo sport, come spesso accade, diviene allora una sorta di campo neutro in cui cimentarsi senza violenza, ma con le stesse dinamiche, identiche volontà propagandistiche e di egemonia. Anche il basket, da sempre territorio di conquista a stelle e strisce, diventa una faccenda politica, su cui i sovietici, storici dominatori continentali, nonostante l’ascesa e i primi successi di una Jugoslavia diplomaticamente e sportivamente non allineata, ripongono massima attenzione e utilizzano a manifesto della loro grandezza. Quando Arvydas è ancora un bambino di 8 anni, nel 1972, la finale olimpica di Monaco rappresenta una svolta storica e un ulteriore terreno di conflitto. Per la prima volta l’oro non va agli USA, ma addirittura ai nemici dell’Armata Rossa, e nella maniera più rocambolesca, con gli ultimi istanti più famosi della storia cestistica, quando gli americani già festeggiano un successo sudatissimo e in rimonta, ma arriva l’ordine di rigiocare i 3 secondi finali, e il titolo passa di mano, appunto ai sovietici. E poco importa che quel finale da intrigo internazionale rimanga ancora un giallo irrisolto e denso di recriminazioni, poco importa anche che la nazionale americana non schieri professionisti, solo giocatori di college, come sempre d’altronde, prima del Dream Team del ’92.

L’oro olimpico è una sentenza che va oltre il campo, i replay, le polemiche, e riscrive in cirillico la storia di quegli anni, ridisegna gli equilibri e fornisce un’arma mediatica persuasiva e potentissima a Mosca anche nei confronti dei propri connazionali: “meglio degli americani nel loro sport” è una medaglia che vale più di un intero medagliere, a livello di propaganda.

Ecco, in questo scenario, a Kaunas, terra a forte passione e tradizione per i canestri, cresce un ragazzone enorme, uno di quei predestinati a cui gli Dei non regalano solo mezzi fisici fuori dalla media, in un contesto etnico per altro in cui storicamente non mancano gli uomini grandi e grossi, ma anche un bagaglio di eleganza, movimenti e tecnica illegali.

Sulle prime, Arvydas, fieramente lituano ante litteram, nonostante gli allori URSS, sembra non volerne sapere. La vita alla periferia dell’Impero non è sempre semplice, non è nato con l’ossessione del successo, né è un espansivo di natura, e la sua stazza è tale da consentirgli una sorta di timida arroganza e un ventaglio di potenziali scelte praticamente illimitate.

Approccia infatti molto tardi, rispetto alla media, il basket. E’ il 1977, e lui ha già 13 anni, non esattamente l’età ideale per iniziare uno sport fatto di fondamentali e movimenti precisi, non sempre naturali, specie per un adolescente dal fisico già impressionante.

E infatti, è proprio quell’anomala grandezza a portarlo sul parquet, con la convinzione di tutti, scout e coach, di aver trovato un potenziale fenomeno di prepotenza muscolare, da scolarizzare con l’unico scopo di creare il solito, efficiente intimidatore, con compiti essenziali e poco tecnici, tutto botte, rimbalzi, stoppate e tiri da 5 centimetri dal ferro. D’altronde, quello è il modello tradizionale e vincente, il prototipo del pivot, in Europa e a maggior ragione in Unione Sovietica. Ciclopi lenti, quasi goffi, spesso pure somaticamente spaventosi, ma determinanti per la loro mole nell’area pitturata. Il già citato centro della nazionale e dell’Armata Rossa di Mosca, Tkačenko è il paradigma di riferimento, un troll da saga fantasy, capace di spazzare via tutto e tutti, senza grazia, ma funzionale in uno sport di contatto.

Sabonis però, è diverso.

E non impiega molto tempo a tritare ogni pregiudizio e regola tecnica del passato. Ha lo sguardo glaciale, quasi assente, a metà fra il nobile aristocratico e lo squalo che sta per azzannare la preda, incastonato però da lineamenti gentili, è molto mobile e utilizza il suo corpo con coordinazione, ma soprattutto ha mani d’oro, morbidissime. Certo, sa stoppare, pigliare rimbalzi, oscurare il canestro in difesa e schiacciare in testa a chiunque in attacco, ma è capace di tirare con naturalezza dalla media e lunga distanza, di palleggiare, di andare in virata o in terzo tempo, di sfornare assist, con disarmante facilità. E’ un fenomeno, nel ruolo, che in Europa non ha precedenti se non nello slavo Kreso Cosic, che però è circa 10 centimetri e decine di chili in meno, rispetto a lui.

Il risultato è che dopo soli due anni con la palla a spicchi in mano, a 15 anni, entra nelle nazionali giovanili dell’URSS, a 17 è nelle juniores dello Zalgiris, la squadra di casa, che sta portando il dominio del campionato sovietico da Mosca a Kaunas, e a 18 anni scarsi, nel 1982, è con la nazionale maggiore, a vincere il Mondiale dei “grandi”.

Poi, diventa adulto, fisicamente e nei rigidi regolamenti della federazione, quindi, pur con tutti i limiti del regime, professionista.

E l’effetto è devastante.

Per utilizzare la definizione dell’inimitabile Sergio Tavcar, Sabonis è un piccolo di 2 metri e 21 centimetri e oltre 130 chili di peso.

Con lui lo Zalgiris diventa la dominatrice assoluta in patria, a metà anni ’80. Inanellando titoli nazionali e divenendo in campo europeo una squadra temibilissima, capace di battagliare con tutti e rendendo immortali alcune sfide, come quelle contro il Cibona Zagabria dell’altro fenomeno europeo, Drazen Petrovic.

La perestrojka di Gorbaciov e le prestazioni di Sabonis sono un parallelismo forzato, irriverente, ma non troppo distante dalla realtà: l’Unione Sovietica comincia a uscire dall’isolamento e ha gli occhi del mondo addosso.

Anche quelli dei rivali di sempre, gli americani.

Nel draft dell’85, gli Atlanta Hawks eleggono al quarto giro proprio il giovanissimo Sabonis, da poco professionista, ma già dominatore assoluto delle plance. Lui deve ancora compiere i 21 anni, e la scelta viene dichiarata non valida, ma l’appuntamento con la NBA è solo rimandato.

Arvydas non fa una piega, non è sempre un atleta rigoroso nella dieta e come molti giocatori di quelle parti difficilmente rinuncia a una vodka, ma cresce ancora tecnicamente, aggiungendo sicurezze e concessioni compiaciute allo spettacolo al suo gioco. Poi, un terribile infortunio al tendine d’Achille pare pregiudicare per sempre la sua carriera, la riabilitazione e il recupero pieno di un corpo del genere non è per nulla scontato, ma singolarmente e a testimonianza di quanto il mondo cestistico sia impressionato e infatuato del gigante, un solo mese dopo essere uscito a braccia dal campo, sono i Trail Blazers di Portland stavolta a farsi avanti, addirittura al primo giro di scelte, tanta è la fiducia nel lituano. Anche stavolta, nulla da fare, tendine a parte. La federazione sovietica si oppone, e ancora Sabonis risponde a suo modo. Torna in campo, gioca, vince, dà spettacolo, col club e la nazionale. Fino a vincere l’oro, il secondo e ultimo dell’Urss, alle Olimpiadi di Seul, battendo in finale l’altra nazionale che sta per scomparire, la Jugoslavia. Gli americani? Bronzo. E se quattro anni dopo a Barcellona decidono per la prima volta di portare i fenomeni della NBA, come Magic, MJ, Bird, Malone, ecc… un po’ è merito di Sabonis, Marčiulionis, Petrovic e compagnia, che hanno asciugato l’oceano e colmato il gap, almeno coi college.

Siamo alla svolta del secolo.

Cade il muro di Berlino e il mondo cambia assetto. E’ il 1989 e Sabonis può uscire dai propri confini. Tutti si aspettano che voli in NBA, a recuperare il tempo e le occasioni perdute per colpe altrui. No, sorprende tutti, decide di migliorarsi cimentandosi ancora in Europa. Va in Spagna, prima a Valladolid, poi al Real. E’ il centro più forte d’Europa per distacco, e convince tutti di essere anche il centro europeo migliore di sempre, aggiungendo il titolo di campione d’Europa con i blancos al suo curriculum.

Nel 1995 è pronto al grande salto. La NBA, che ha già aperto le sue porte agli europei e gode delle loro prestazioni, lo accoglie a Portland, che da oltre 7 anni attende un pivot dominante.

Maturo, completo, migliorato dalle esperienze, Arvydas non ha bisogno di praticantato o della gavetta da rookie, per quanto il suo minutaggio sia dosato, all’esordio, a 24 minuti di media: lui giocando quella “metà partita” per una stagione intera, la prima, mette a segno 1.075 stoppate e viaggia a medie di 14.5 punti, 8.1 rimbalzi e 1.8 assist, mandando in delirio i tifosi della franchigia e impressionando una lega intera, che pur avendo avuto Jabbar o Olajuwon, come pivot completi, resta incantata dalla grazia e completezza del gigante Blazers, cui subito viene affibbiato l’evocativo titolo di Principe del Baltico, per la sua eleganza in ogni fondamentale.

Gli anni successivi, pur con alcuni stop forzati a causa degli infortuni, vedono crescere Sabonis, nelle statistiche individuali, nella sua leadership, nel rendimento della squadra. E’ ormai uno dei grandi tra i più grandi.

“È un Larry Bird di 2 metri e 20” dichiara un ex-pivot che ha fatto la storia come Bill Walton, e che è stato compagno di Bird ai Celtics.

Portland sfiora con lui ben 2 volte le Finals, arrivando in finale di Conference nel ’99 e nel 2000, perdendo contro avversari che avrebbero fondato vere dinastie, i San Antonio di Duncan e i Lakers di Kobe e Shaq.

Parallelamente, pur con una nazionale di uno stato demograficamente piccolo, esattamente come quelle della ex Jugoslavia, la Lituania si fa strada e ottiene con Sabonis a guidarla risultati internazionali eccellenti.

Terminata l’esperienza oltreoceano, Sabonis torna a casa, nel 2002, nel “suo” Zalgiris. E’ appesantito, ma ancora dominante, tanto da essere richiamato a dare una mano per un anno ai Portland, per poi ripiegare nuovamente in patria, da protagonista nazionale e internazionale, tanto che nel 2004 è nominato MVP dell’Eurolega, giocata sempre col biancoverde di Kaunas addosso, dove chiude la carriera.

Dopo, a parte il brutto episodio di un infarto giocando una partitella tra amici, da cui si riprende come sempre, Arvydas si ritira dalla scena pubblica, ma il suo nome è di quelli che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del basket. E che vive ancora, nei riconoscimenti a lui attribuiti, come la massima onorificenza nazionale, l’Ordine Presidenziale della Luce, e a livello internazionale l’ingresso sia nella Hall of Fame FIBA che in quella NBA, e sul campo, con due figli che hanno seguito le orme del padre, uno già in NBA, l’altro nella Liga Spagnola.

Il palmares di Sabonis è impressionate e parla da solo:

con lo Zalgiris Kaunas 3 titoli nazionali URSS e 1 Coppa Intercontinentale, poi altri 2 campionati Lituani e 1 Lega Baltica, con il Real 2 campionati in Spagna, 1 Coppa del Re e 1 Coppa Campioni, con le nazionali 1 oro Olimpico, 1 oro e 1 argento ai Mondiali, 1 oro e 2 bronzi agli Europei con l’Unione Sovietica, 2 bronzi alle Olimpiadi e 1 argento agli Europei con la Lituania, oltre appunto ai titoli individuali di MVP Eurolega e membro della Hall of Fame europea ed NBA.

 

Ma è il suo gioco, l’impatto nella pallacanestro, i suoi movimenti armoniosi, che lasciano ancora a bocca aperta e sprigionano eleganza e completezza, imprigionate in quel fisico fuori dalla norma:

 

https://www.youtube.com/watch?v=WEYnLxrs4W8

 

Sono gesti sublimi.

Gesti indimenticabili e inimitabili.

Gesti degni di un vero Principe della pallacanestro.

Da Principe del Baltico.