LA DINASTIA SPURS – EMANUEL “MANU” GINOBILI

Banale ripeterlo, ma la storia della NBA è ricchissima di talenti, fenomeni, campioni, che spesso trascendono la dimensione del basket. E che, come abbiamo raccontato in altre puntate di Memories, identificano e portano con se’ le squadre in cui giocano, oppure, al contrario, lasciano un cono d’ombra sulle loro franchigie, tanto è intensa la luce della loro grandezza individuale.

Ma esistono anche alcuni casi, rari quanto emblematici, in cui la simbiosi è perfetta. Team, città e loro idoli uniti in un’indissolubile intesa tecnica ed emozionale, che scrivono pagine fondamentali e insieme divengono leggende.

Le une e gli altri a risplendere come supernove e rafforzarsi reciprocamente.

Quando accade, è tutto perfetto.

Quando accade, si parla di dinastie. Le grandi dinastie NBA.

E per poterle chiamare davvero dinastie, sono necessari alcuni elementi, comuni a tutte e marchi indelebili di ognuna delle loro epopee.

In primis, la longevità, ovvero non tanto e non solo le vittorie, ma il mantenimento di un altissimo livello di gioco e risultati per anni. Poi, una forte, fortissima identità, nello stile di gioco, nell’approccio, nella mentalità. Ovviamente, contano le vittorie, ci mancherebbe, contano i singoli campioni del roster, specie se appunto si identificano nella franchigia, ci restano e ne divengono bandiere. E spesso, contano pure i loro condottieri, coach iconici che sanno guidarle con personalità immensa.

In oltre 70 anni di NBA, le vere dinastie di cui parliamo non sono tantissime. Non è una colpa, né vogliamo togliere un grammo alla grandezza di campioni come Chamberlain o Lebron James, anzi, tanto mitici, superiori e girovaghi da rendere impossibile accomunarli a un solo team, non ci dimentichiamo di squadre fortissime e storiche come i Pistons dei Bad Boys o gli Houston di Olajuwon, vincenti e perfette, ma in grado di mantenersi al vertice solo per alcune epiche stagioni.

Ma quelle di cui parliamo sono… qualcosa di più… .

I Boston Celtics di fine anni ’50 e anni ’60, capaci di infilare 8 anelli consecutivi, o quelli di Larry Bird, del parquet incrociato del Garden, protagonisti per oltre un decennio. Sono i Lakers dello Show-Time, di Magic, Kareem, di coach Pat Riley. Sono i Chicago Bulls, in cui di certo c’era un extra-terrestre abbagliante come MJ, ma che hanno saputo divenire squadra, vincere 6 titoli, e costituire un ingranaggio perfetto con coach Phil Jackson, tanto che quasi ci si scordano i suoi anelli successivi nella Los Angeles di Kobe e Shaq.

E poi ci sono loro.

 

I San Antonio Spurs.

La dinastia degli Speroni.

Forse quella che meglio racchiude il senso di questa premessa. Oltre 15 anni ad altissimo rendimento, con un’identità tecnica e una filosofia di gioco inconfondibile sotto la guida “militare” di Popovich, campioni assoluti a riempire il roster e 5 anelli conquistati.

Con quei 5 titoli, cui si aggiungono i 6 della Western Conference e ben 22 di Division, oltre ai successi individuali dei campioni passati da San Antonio, nella classifica storica delle franchigie NBA stanno dietro solo ai già citati Celtics, Lakers, Chicago, e a Golden State.

Ma questi ultimi hanno un palmares appena superiore come anelli e diviso quasi equamente fra fine anni ’60 e la corazzata dei nostri tempi con Curry e Durant, mentre le 3 big hanno subito alti e bassi importanti e soprattutto sono team con una “anzianità di servizio” ben superiore, nati praticamente insieme alla Lega.

I bianco-neri texani invece, sono nati agonisticamente dalle ceneri dei Dallas Caparrals, nel 1973, passando per quattro stagioni in ABA, prima di debuttare in NBA. E allora il peso specifico del loro rendimento assume connotati diversi e più profondi. In 47 anni di storia San Antonio infatti ha “ciccato” l’ingresso ai play-off solo 4 volte, nei 15 anni dal ’99 al 2014 ha vinto 5 volte l’anello, e la sua percentuale di vittorie è in assoluto la più alta dell’intera storia del basket americano. Più dei Celtics, dei Lakers, di Chicago e San Francisco.

Fin dal loro esordio nella lega, a fine anni ’70, la franchigia, al tempo parecchio sottovalutata dal mondo a spicchi d’oltreoceano, ha conquistato sul campo il rispetto degli avversari e ottenuto record stagionali di valore, piazzandosi bene e annoverando in roster una star come George Gervin, bocca da fuoco assoluta.

Tutto questo non poteva bastare ad andare oltre ai primi titoli di Division e qualche turno di play-off, specie nella NBA anni ’80, dominata da Los Angeles, Boston, Philadelphia, poi Detroit. E neppure ad evitare, dopo 10 anni di pallacanestro e risultati positivi, un fisiologico calo nel momento del cambio della guardia, della rifondazione tecnica di un roster talentuoso giunto a fine corsa. Ma da fine anni ’80, passando per posizioni vantaggiose nei draft, da scelte tecniche importanti come quella di affidarsi a coach Larry Brown, un santone NCAA, gli Spurs hanno posto le basi per un trentennio di assoluto splendore, cominciato da un nuovo dominio della Division, per poi conquistare i titoli di Conference e gli Anelli Assoluti, con una continuità indiscussa, ancor più incredibile nel basket moderno, segno della ferma e lucidissima conduzione societaria e paradigma della nascita e conferma di una vera e propria dinastia, come dicevamo.

 

Dovendo fare una selezione molto stretta e pescare solo alcuni esempi nello sterminato panorama dei grandissimi passati per il Texas, è doveroso citare in primis David Robinson. L’ingaggio del talentuoso pivot e ufficiale di marina, uno dei pochi giocatori al mondo a potersi fregiare di 2 ori olimpici nel basket, ha infatti segnato lo spartiacque fra una buona franchigia in ricostruzione e l’inizio di una vera e propria era, che nei successivi 10 anni ha consolidato gli Spurs ai vertici della Conference Ovest e nel 1999 ha portato a San Antonio il primo anello NBA, quando alle già eccellenti prestazioni di Robinson e compagni, si sono affiancate quelle di nuovi innesti clamorosi, a cominciare da Tim Duncan, poi mito NBA e bandiera bianco-nera, che proprio con Robinson ha formato forse la migliore coppia di lunghi, sui due lati del campo, della storia.

Arrivato in Texas nel 1997, il caraibico, nuotatore olimpico mancato, ha, come il collega, cominciato la propria carriera PRO ricca di successi, conquistando il premio come rookie of the year, per poi divenire la vera colonna portante della franchigia per quasi 20 anni di vittorie e record. Dotato di una tecnica sublime e di una leadership silenziosa quanto forte, Duncan è certamente sul podio all time del suo ruolo, con caratteristiche irripetibili, e titoli anche individuali, sia in attacco sia in difesa.

Per i successivi titoli, del 2003, 2005, 2007 e 2014, mantenendo sempre e il più possibile inalterati i punti forti del roster, gli Spurs hanno poi potuto contare, tra gli altri, sulle prestazioni prima di Tony Parker, poi dell’astro nascente Kawhi Leonard, a testimonianza della capacità gestionale di una società attentissima nello scouting, nelle scelte, nel loro inserimento tecnico, anche quando provenienti da mondi cestistici molto differenti.

Il piccolo francese è presto divenuto riferimento assoluto sul parquet, costituendo con Duncan una coppia play/guardia – ala/pivot quasi immarcabile, mentre Leonard proprio con l’esplosione del proprio talento e l’anello vinto da MVP, è entrato come un missile nel gotha assoluto del basket NBA e oggetto del desiderio sul mercato.

 

L’abbiamo detto, la selezione dei fenomeni Spurs è per forza molto ristretta, e lascia indietro giocatori eccezionali, ma per completare il ritratto “Casata” più nobile della NBA degli anni 2000, mancano due “pennellate” d’autore e di livello mondiale.

La prima, il coach.

Greg Popovich.

Padre serbo, madre croata, una formazione militare da allenatore passata nell’Academy dell’Air Force, Popovich, duro, determinato, quanto intelligente e capace di esaltare il singolo in un rigido contesto di squadra, è l’icona sacra di San Antonio, ma soprattutto dell’allenatore NBA degli ultimi 20 anni abbondanti.

Dopo un apprendistato come secondo agli Spurs, poi a Golden State, al suo ritorno a San Antonio in qualità di GM e vicepresidente nel 1996, il suo carattere deciso e il suo valore sono emersi presto: ha immediatamente licenziato l’allora coach Bob Hill, una discreta carriera sulle panchine americane e una parentesi in Italia alla Virtus, e lo ha sostituito come allenatore e “padrone” delle scelte tecniche, dentro e fuori dal campo.

Una mossa audace, che ha messo se stesso sotto le luci della ribalta, ma anche sul patibolo della critica, in caso di insuccesso.

Risultato?

Una trasformazione epocale, che ha fatto della franchigia una vera scuola di riferimento del basket mondiale, con un’infilata di prestazioni, vittorie, titoli, di cui i 5 anelli NBA sono l’apice, ma non sono sufficienti da soli a sottolinearne la grandezza.

Metodi di allenamento, disciplina, innumerevoli declinazioni tattiche dei bianco-neri sono divenuti leggende vere e proprie, l’esempio di come l’organizzazione del lavoro, anche in un basket sempre più atletico e improntato allo show-business, paghi eccome.

Ettore Messina, ex-assistente di Popovich, ha raccontato di come al suo esordio, il primo giorno di preparazione pre-stagionale, la squadra, oltre alle sedute atletiche, sul campo dovesse eseguire esercizi da scuola basket, percorsi tipo palleggio-virata-ripartenza in palleggio, che i più associano normalmente alla formazione delle giovanili o del minibasket che a gente come Duncan… ma tant’è, dalle basi, dall’applicazione ossessiva sui fondamentali, ogni estate Popovich ripartiva per giocarsi l’anello.

E se gli staff tecnici avversari degli Spurs, negli studi approfonditi che in NBA sono regola per conoscere le formazioni da incontrare, hanno contato oltre 200 giochi d’attacco e loro variabili, il quadro è completo: la Dinastia degli Speroni ha un’impronta rigida, complessa e organizzata al massimo.

 

Come ciliegina sulla torta dell’era Spurs, l’ultimo approfondimento lo vogliamo dedicare a un campione particolare, che interpreta alla perfezione la filosofia di San Antonio e ha avuto una propria storia, parallela e del tutto simile alla franchigia.

Emanuel, detto Manu, Ginobili.

Argentino di Bahia Blanca, classe ’77, la sua carriera infinita, durata ben 23 stagioni ai massimi livelli, è infatti l’emblema di come di certo sia necessario il talento, ma anche di quanto pesino la volontà, l’applicazione, l’intelligenza cestistica.

Non è il classico predestinato che fin dagli esordi impressiona e incanta, Manu.

Sa giocare eccome, ha una buona mano, elasticità, la famosa “garra” competitiva dei sudamericani, ma per gli addetti ai lavori, all’inizio, è “solo” una buona guardia tiratrice mancina, che per doti tecniche e soprattutto fisiche difficilmente può imporsi a livello internazionale.

“Troppo esile”, “troppo basso e magro”, “buone statistiche ma nulla di che…” sono i commenti quando gioca in patria, a casa sua, nell’Olimpo Bahia Blanca. Idem quando sbarca in Italia, alla Viola Reggio Calabria, che porta di peso alla promozione in A1.

Sì, certo è bravo. Ma la A2 non basta… la A1, quella dei fenomeni anni ’90, è un’altra cosa.

A conferma che dalle parti di San Antonio ci sanno fare e che Popovich qualcosina intuisce, gli Spurs neo-campioni NBA lo inseriscono nelle loro scelte del ‘99, nonostante una carriera ancora da costruire e parquet poco prestigiosi nel suo percorso. Lui resta a Reggio, cresce e impressiona per i propri miglioramenti anche in un contesto competitivo altissimo, portando la squadra a un passo dalle semifinali nazionali. A questo punto, è l’estate 2000, la Virtus Bologna si fa avanti, individua in lui il talento emergente su cui puntare e da affiancare a Danilovic, che però a sorpresa, quella stessa estate, annuncia il ritiro.

In una serie A di primissimo piano, con campioni internazionali assoluti, una nazionale fresca di titolo europeo, e nello specifico, con gli avversari della Fortitudo al loro primo storico scudetto, i primi giorni di Bologna per Manu sono accompagnati dallo scetticismo. Anzi, a dirla tutta, Ginobili viene vissuto come una sorta di “ripiego”, un’opzione B, certo capace e futuribile, ma deludente.

Orfana del mito Danilovic, la Virtus infatti perde il derby di mercato con la Fortitudo, per aggiudicarsi Andrea Meneghin, omologo di ruolo e molto più valutato, quindi per quanto a passaporto italiano, reduce da prestazioni eccellenti sullo Stretto, l’argentino non soddisfa le aspettative di riscatto bianco-nere, è “quello scelto perché Meneghin l’hanno preso gli altri”, e i pronostici danno la Fortitudo rafforzata come sicura conferma al vertice, in città e in Italia.

E anche a Bologna, le solite frasi… “E’ esile, gracile, buono sì… ma non eccezionale…”.

 

Sì sì…

Al primo anno con la canotta delle V nere Manu si impone come talento assoluto, leader totale, dimostra doti atletiche e di elevazione impressionanti, alla faccia delle critiche. E vince, in soli 12 mesi Scudetto, Coppa Italia ed Eurolega, il Grande Slam, fatto più unico che raro nella storia della pallacanestro italiana. Al secondo anno, bissa la Coppa Italia, sfiora la finale scudetto e perde al pelo la finale di Eurolega.

A questo punto è una star internazionale, e gli scettici sono scomparsi. Tanto più, quando nell’estate 2002, con la nazionale Argentina, conquista l’oro olimpico, battendo in semifinale gli USA e in finale proprio l’Italia.

Manu allora è pronto per attraversare l’oceano ed accasarsi a San Antonio, rispondendo alla chiamata di 3 anni prima.

Stessi colori, identica mentalità, ambizione e obbligo a vincere, medesimo rigore… e Popovich a prenderlo in cura.

Il suo percorso in Texas, come in Italia, parte da un approccio prudente, senza proclami né attese, minutaggi che lievitano nel tempo, spazi da conquistare col lavoro duro e la voglia di migliorarsi.

Lo stesso coach Spurs, non esattamente un cuore tenero, vedendolo allenarsi e poi sfornare prestazioni sempre in crescita sui campi più importanti del mondo, afferma “È probabilmente la persona più competitiva che io abbia mai visto”.

Il resto è storia recente del basket e della NBA.

Con Duncan e Parker Ginobili forma il trio delle meraviglie, emblema della Dinastia Spurs, di uno stile inimitabile di gioco, poi confermato al massimo livello con l’arrivo di Leonard, e che porta 4 anelli, titoli di Division e Conference in serie, insieme a riconoscimenti sempre crescenti a livello individuale per Manu, tra i quali quello più azzeccato per un’arma tattica come l’argentino, ovvero il premio come miglior sesto uomo NBA, o l’onore di essere portabandiera olimpica per l’Argentina a Pechino 2008.

Terminata la carriera nel 2018, con ovvio ritiro della maglia da parte di una franchigia di questa portata, il suo curriculum è impressionante, impreziosito da due record incredibili: Insieme a Bill Bradley, Ginobili è l’unico giocatore ad aver vinto Anello NBA, Eurolega e Olimpiadi, ed è l’unico cestista nella storia del basket ad aver aggiunto a questi trofei i titoli nazionali come lo scudetto e la coppa in Italia.

Per il resto…:

1 oro e 1 bronzo alle Olimpiadi, 1 argento ai Mondiali, 2 ori, 1 argento e 1 bronzo ai campionati Panamericani, 1 argento ai campionati Sudamericani, con la nazionale, 5 anelli NBA, 1 Scudetto italiano, 2 Coppe Italia, 1 Eurolega, con i club, 2 volte MVP del Campionato italiano, 1 volta MVP di Coppa Italia, 1 volta MVP Final Four Eurolega, 1 volta MVP delle Olimpiadi, sempre inserito nelle selezioni dei migliori giocatori del campionato italiano, NBA, Eurolega, Mondiali, Olimpiadi e Panamericani, Miglior Sesto Uomo NBA, eletto, ancora in attività, nella Hall of Fame FIBA.

 

Niente male, per un ragazzo di Bahia Blanca, gracile, bravino ma esile, poco fisico, con margini di crescita relativi, eccetera… .

 

Ma baste riguardarselo, per riconoscerne la grandezza:

https://www.youtube.com/watch?v=UySuufDRF20

 

E soprattutto, riconoscere la sintesi perfetta fra talento, doti fisiche, tenacia, applicazione, mentalità e voglia di emergere.

 

Roba leggende.

Roba da Manu Ginobili.

Roba da Spurs.

La Dinastia Spurs.